
L' amico Stefano Boninsegni
(*), nel bel post di oggi, ci ricorda due cose fondamentali: in primo
luogo, che bisogna sempre distinguere tra necessaria difesa
dell’individuo e sciocca celebrazione dell’individualismo;in secondo
luogo, che l’individualismo come avversione verso l’esistenza di
qualsiasi forma di società intermedia tra individuo e Stato, mina le
radici stesse della socialità umana. Insomma, un “ripassino” niente
male.
Buona lettura. (C.G.)
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Società senza socialità
di Stefano
Boninsegni
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Secondo il “reazionario” Joseph de Maistre, l'attacco
alla religione e l'individualismo dei Lumi avrebbero distrutto la
socialità, che l'autore francese considerava sacra e proponeva di porla
sotto comando divino (si veda S. Holmes, Anatomia
dell'antiliberalismo, 1995 ). Al di là delle argomentazioni, spesso
ingenue, usate da Joseph de Maistre, non vi è dubbio che oggi gli
uomini vivono in società sempre più atomizzate, dove la socialità è un
bene sempre più scarso.
Un musicista intervistato da Giordano
Casiraghi nel suo Anni 70 (2005) afferma : “se negli anni 70
parlavi di politica in un ristorante, vi era la probabilità che quelli
del tavolo accanto interferissero. Oggi sarebbe inconcepibile”
Manca
cioè un clima di socialità che lo renda possibile. Significativamente,
sempre di più le Amministrazioni locali sono impegnate nel recupero di
antiche feste, sagre ecc. Lo scopo è il recupero delle identità
culturali, ma più profondamente vi è l'intento di creare socialità.
Diversa
la situazione nella passata società industriale. Essa ha generato,
secondo le varie fasi, una pluralità di forme di socialità che hanno
svolto la funzione di sostituire i legami della società agricola,
arginando l'azione socialmente dissolvente del capitalismo. Il che non
toglie che in essa si siano sviluppati fenomeni di solitudine
metropolitana, sulla quale tanto si è scritto e riflettuto.
L'alienazione capitalista ha progredito inesorabilmente per restituire
l'attuale società, spesso definita come la società dell'estraneità
reciproca
Diffuso, tuttavia, fra chi ne ha l'età, il rimpianto di
quando nel quartiere ci si conosceva tutti, i negozi erano luogo di
conversazione e conoscenza, in un clima di disponibilità reciproca. Se
una famiglia nel periodo festivo, ad esempio, incontrava in un camping
un' altra famiglia che abitava nello stesso quartiere, scattava una
sorta di obbligo sociale di frequentarsi. In questo caso valeva un senso
di appartenenza ad un territorio. Se un comunista si imbatteva in un
altro comunista, la socializzazione era garantita dal senso di
appartenenza ad un popolo altro (la diversità comunista) Per quanto
riguarda poi, nello specifico, gli anni Settanta, al di là del duro
scontro politico che li contrassegnò, rappresentarono un festival di
socialità giovanile : a fianco del quartiere che resisteva come fonte di
socialità, l'ampia minoranza di giovani che si rivoltò, recuperò le
piazze come luogo di incontro e socializzazione. Vi erano piazze per
militanti “puri”, nonché piazze per aspiranti freaks Per inciso, sarà da
questa componente che scatterà un rifiuto di una militanza repressiva e
saranno avanzate istanze tutt'altro che trascurabili all'interno del
processo culturale che culminerà nell'individualismo del decennio
successivo
Con questo, anticipando la nostre conclusioni, vogliamo
sostenere che non vi è una vera socialità in mancanza di un senso di
appartenenza.
Secondo Dahrendorf ( Il conflitto sociale nella
modernità , 1992 ) ciò che ha garantito socialità e solidarietà
nella passata società industriale, va ricercato nel conflitto di classe.
Esso ha creato solidarietà profonde nel mondo del lavoro e,
direttamente e indirettamente, ha ispirato grandi aggregazioni popolari,
che paradossalmente hanno costituito quella coesione sociale necessaria
al capitalismo.
Ma è proprio alla fine degli anni Settanta, distinti
dalla fine del movimento operaio e dell'idea socialista, che
rapidamente si passa da un'atmosfera solidarista ad una mentalità
individualista. E' in questa fase che si teorizza la “fine delle
ideologie”, espressione mistificante nella misura in cui una soltanto ne
resta in posizione egemonica, ovvero quella liberale. Il “pensiero
debole”, dalla sua, teorizza che con la fine dell'ultima metafisica, il
marxismo, gli uomini sono liberati dall'ossessione di ingegnarsi ad
elaborare utopie. Ma la “vera” teorica di questa transizione è la stessa
Signora Thatcher: allieva di Ayn Rand, era solita sostenere che “ la
società non esiste, ma solo gli individui”. Per inciso, l'individualismo
di ritorno, di cui ella celebra i fasti, è in realtà un individualismo
malato di narcisismo, edonismo, lontano dagli ideali della scrittrice
russa.
In ogni caso, la mentalità individualista che si afferma dalla
fine degli anni Settanta, dissolve ogni senso di appartenenza, e con
questi, inesorabilmente e tangibilmente, la socialità, fino al punto di
inquietare, come abbiamo visto, le stesse “istituzioni”, perché una
società che perde la sua socialità è sempre sull'orlo dell'implosione.
Questo
processo ha avuto varie interpretazioni. Pietro Barcellona, che ha
studiato profondamente il legame sociale ha scritto : “Ciò che è
cambiato non è facilmente coglibile astrattamente, e ci costringe ad
affrontare il problema della rilevanza fondativa delle pratiche
sociali.E' cambiata, infatti, anzitutto quella che si direbbe la Stimmung
; il senso comune, l'immaginario. La direzione di marcia, il senso
della vita, ( appunto la Stimmung del tempo ) : il tempo in cui
viviamo ha un altro “senso”. E' penetrata sempre più nel senso comune
una “visione singolarizzata” della nostra vita. L'immagine con la quale
strutturiamo il mondo non è più “espressiva” del rapporto con l'altro” (
L'individuo sociale ,1996 ).
Alain Laurent ha avanzato un'
ipotesi interessante : anche se sul piano culturale ( nel senso lato del
termine ) prevalevano visioni anti-individualiste, nella vita concreta
gli individui progressivamente adottavano modelli consumisti e
individualisti. Ad un certo punto esplode inevitabilmente la
contraddizione ( Storia dell'individualismo,1994)
Marco
Revelli, che ha definito il passaggio del solidarismo degli anni
Settanta all'individualismo degli Ottanta come il passaggio
dall'identità collettive all'individualismo del consumismo di massa, ha
il merito di aver posto fortemente l'accento sull'erosione della
socialità. In passato il docente piemontese ha intravisto nel Terzo
settore un possibile veicolo di socialità. In realtà, rischio che lo
stesso Revelli aveva preventivato, quest'ultimo si è ridotto alle
cosiddette cooperative sociali, a cui gli enti pubblici appaltano varie
funzioni a scopo di risparmio. Del resto - così teorizza Revelli - "la
socialità bisogna volerla o non sarà" ( La sinistra sociale,
1997 )
Ma la socialità non si può volere. Essa, date certe
condizioni, sgorga spontaneamente.
Gli uomini occidentali
contemporanei, al momento, come ha spiegato Lasch, sono condannati ad un
“io minimo”, schiacciato sulle proprie strategie difensive, in una
società colta come una giungla. ( L'io minimo, 1985 ).
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Stefano Boninsegni
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Storico delle idee sociali. Si è occupato di Sorel e del sindacalismo
rivoluzionario. Ha scritto saggi di argomento sociologico e filosofico
sul movimento operaio, l’individualismo di massa e la crisi del legame
sociale. Tra le sue opere ricordiamo in particolare New Economy
(2003 ) e l'importante libro-intervista a Giano Accame e Costanzo
Preve, Dove va la Destra? - Dove va la Sinistra? (2004), volumi
pubblicati dalle Edizioni Settimo Sigillo.
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