11 settembre 2017
Volentieri riceviamo e volentieri pubblichiamo
La scuola alienata
Il libro di Iacopo Nappini, Memoria
e confine. Viaggio nel mondo della scuola, con il quarto e ultimo capitolo
scritto da Francesca Naldini,
ricostruisce e analizza criticamente il processo storico con cui si è
arrivati allo stato attuale della scuola italiana. Nappini ripercorre con
grande lucidità e competenza le vicende della scuola nella storia d’Italia, per
le quali si potrebbe fare forse questa periodizzazione: scuola liberale, fascista, prima del ‘68,
dopo il ‘68 e dopo l’89 fino ad oggi. Finchè
Nappini, insieme a Naldini, approda a una denuncia radicale della
condizione attuale della scuola italiana. La sua lettura mi ha sollecitato a
buttar giù qualche considerazione su un tema così urgente e decisivo.
Cos’è la Scuola? La parola viene dal
greco Scholè, che significa tempo libero (dal lavoro e dalla guerra). E
indica quindi un tempo da dedicare a se stessi, al proprio arricchimento,
avendo come fine quella che i greci chiamavano paideia.
Paideia significa educazione ma
nel senso di una formazione umana completa e non professionale. La Scuola educa
a diventare un essere umano, prima che un fabbro o un falegname, dà quindi una
formazione globale, generale, non particolare e specialistica.
Paideia significa anche cultura,
ossia la Scuola è il tempo libero dedicato a coltivare se stessi, il
proprio corpo e il giardino della propria anima.
Ed essa è sì formazione, ma non
nel senso di imporre alla potenzialità ancora informe del ragazzo una forma
dall’esterno ma nel senso di aiutarlo a darsi da sé la propria forma
dall’interno, ad essere artefice di se stesso, a scolpire da sé la propria
statua.
Come ancora paideia è educazione ma non nel senso
di riempire dall’esterno la mente del ragazzo come un vaso vuoto, o in quello
di raddrizzare le viti storte, bensì in quello di aiutarlo a condurre fuori da
sé se stesso, le proprie idee e i propri valori, non quelli del docente, e nel
senso non di raddrizzare ma di rispettare ed amare le viti storte. Da questo
punto di vista ogni insegnante è una levatrice, come Socrate.
Paideia è quindi anche insegnamento, ma nel
senso che l’insegnante dev’essere capace non di suscitare indifferenza ma di
lasciare un segno nel ragazzo, nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita,
ossia deve saperlo affascinare accendendo in lui la fiamma del desiderio, l’amore
di sapere. E l’amore per il sapere è filosofia. Ogni vero insegnamento è
filosofia.
Paideia è infine anche istruzione,
cioè l’attività di fornire informazioni e nozioni, senza i quali si lavora sul
nulla, ma dove l’istruzione è solo una parte e non tutto e dove l’istruzione è
in funzione dell’educazione e non viceversa.
Dunque la Scuola è il tempo libero che
ha come scopo di aiutare la persona a diventare un essere umano, ad essere se
stessa nel modo migliore. Quello che i greci chiamavano aretè, virtù. Ma
cosa significa tempo libero dedicato a diventare un essere umano, ad
essere uomo nel modo migliore? Cos’è un essere
umano?
Da un lato, per Aristotele un essere
umano è un animale dotato di ragione: ciò che è proprio dell’uomo e lo
distingue da ogni altro essere è la razionalità, il pensiero. Ma il pensiero è
critica, capacità di distinguere. Dunque la Scuola è tempo libero per aiutare
la persona a sviluppare una testa pensante e critica.
E dall’altro lato, per Platone, si
impara solo attraverso l’amore. In questo senso la Scuola è il tempo libero
dedicato ad accendere il desiderio, che è ciò che accende la vita, quindi tempo
dedicato ad accendere la vita, a suscitare
la passione, l’amore di sapere, di nuovo filosofia. Ogni vera
scuola è filosofia, la quale anche per Aristotele nasce di fronte a qualcosa
che meraviglia e fa sorgere il desiderio, il desiderio di sapere. Qui lo scopo
è formare cuori desideranti, appassionati. Il segreto della scuola è l’amore.
Deve formare degli amanti. La scuola deve occuparsi solo dell’amore. Il suo
compito è accendere la vita.
Ecco dunque in sintesi, raccogliendo
le cose dette fin qui, la risposta alla domanda cos’ è la scuola? La
scuola è il tempo libero dedicato a formare persone libere che hanno cuori
desideranti e appassionati uniti a teste pensanti e critiche. Questo è tutto.
E se questo è ciò che la Scuola è,
questa è l’essenza della scuola. Per indicare la Scuola fedele alla sua
essenza, sto usando la parola con la lettera maiuscola. La Scuola, quella con
la lettera maiuscola, è la vera Scuola, la Scuola in quanto essa è se stessa, è
ciò che è. Ma ciò significa che l’essenza della scuola è intimamente
conflittuale rispetto al potere (politico e quindi economico). Giacché infatti
essa è filosofia, è l’attività di mettere in dubbio ciò che è dato per
scontato, e dunque la realtà esistente. La Scuola è il luogo per eccellenza
dove si ha cura delle condizioni del dissenso. La sua essenza è essere palestra
di persone che con passione pensano e criticano il mondo. E per questo lo
migliorano. La scuola è il motore del cambiamento e del progresso. E’ il luogo
dove si gettano i fondamenti per imparare a dire di no. È per natura dinamica e
destabilizzante laddove il potere è statico e conservativo.
Ma, se questa è l’essenza della Scuola,
cos’è la scuola oggi? Come si nota, occorre subito passare alla lettera
minuscola. La Scuola è la scuola ideale, la scuola come dovrebbe essere, la
scuola è la scuola reale, la scuola com’è. E La scuola reale oggi è
forse fedele alla propria essenza, è quello che è? Ecco, niente affatto, anzi
essa è esattamente l’opposto, non è più se stessa, è diventata altro dalla sua
essenza, si è alienata. E non è più indipendente dal potere e sguardo critico
su di esso ma strumento del potere, totalmente asservito ad esso. Com’è
avvenuto questo ribaltamento, frutto ovviamente di un lungo processo di
strumentalizzazione della scuola da parte del potere, com’è successo tutto ciò?
Per limitare il discorso a tempi non
troppo lontani, dopo che il ‘68, a partire da don Milani il quale, scrive
Nappini, vedeva la scuola come il luogo ove si formava il senso critico e il
singolo imparava a reagire ai condizionamenti e aveva denunciato il
carattere classista, punitivo e selettivo della scuola italiana, funzionale
all’economia capitalistica, assistiamo negli anni ‘80 (prendiamo l’89 come data
simbolo) alla poderosa controffensiva del capitalismo nella sua forma più
radicale e aggressiva, il neoliberismo, che non solo intende
riconquistare le posizioni perdute negli anni ‘60 e ‘70 ma vuole anche
stravincere abbattendo tutti gli ostacoli che pongono un limite al
raggiungimento del suo scopo, cioè il profitto privato. Il capitalismo è
volontà illimitata di profitto privato. Il capitalismo è senza limiti.
Ma non avere più limiti significa che il
capitalismo aspira a diventare tutto, mediante il processo che ha il nome di globalizzazione
ed indica l’estensione del capitalismo al mondo intero. Ossia il
capitalismo, da capitalismo limitato, aspira a diventare capitalismo globale,
cioè assoluto. Il che significa annientare appunto ogni limite, e i limiti maggiori rimasti, dopo aver sconfitto quello principale,
il comunismo, sono la politica, cioè lo stato, la religione, cioè la chiesa, e
la cultura, cioè la scuola. Annientarli non significa fare in modo che non
esistano più ma stravolgere la loro essenza per piegarli e deviarli verso un
altro fine. La politica, cioè l’attività di promuovere il bene comune, diventa
quella di realizzare il bene privato dei grandi poteri economici e finanziari,
la religione, cioè la fede in Dio, diventa fede in quel nuovo Dio che è il
denaro che, come scrive Nappini, da mezzo diviene scopo ultimo
dell’esistenza, la cultura, cioè l’attività di formare persone libere, pensanti e critiche, diventa
l’attività di preparare persone acritiche adatte al mercato, a creare, come
nota Naldini una futura massa di lavoratori privi di autostima, pronti a
inchinarsi di fronte al datore di lavoro.
Per quanto riguarda la scuola, dunque,
assistiamo alla realizzazione del poderoso progetto di progressiva distruzione
capitalistica della Scuola snaturandone l’essenza con riforme nelle quali, osserva
Nappini, il parere degli insegnanti di solito non è preso in considerazione
dalla politica che riforma la materia dall’alto. Il momento decisivo con
cui comincia questo processo è la riforma Berlinguer, proseguito poi da
tutte le riforme e governi successivi, di destra e di sinistra, ormai d’accordo
nella celebrazione del capitalismo come unico mondo possibile. Coerentemente
con quel grandioso processo con cui la sinistra ha fatto propria l’intera
ideologia della destra. Per cui, se ha un senso dire che è superata oggi
l’opposizione tra destra e sinistra, è solo perché la sinistra è diventata
destra (per quanto continui a chiamarsi sinistra). Ormai esiste solo la destra,
in quanto ciò che si chiama sinistra e ciò che si chiama destra crescono su un
terreno comune, la convinzione che il capitalismo sia intrascendibile e anche, nonostante
l’evidenza contraria, il migliore dei mondi possibili.
Il marchio di fabbrica di questo immane
processo di snaturamento della scuola, alienandola dalla propria essenza, è la
concezione, che s’impone con la riforma Berlinguer, della scuola come azienda.
A questo punto tutto è già stato fatto e ciò che viene dopo non è altro che una
logica esecuzione e conseguenza di questa premessa.
Si tratta di capire che qui avviene un
plateale rovesciamento di fine. La scuola azienda ha un fine diverso dalla
Scuola. Il fine della Scuola, lo abbiamo visto, è il bene di ciascun individuo
come aretè, virtù, cioè piena
realizzazione di ognuno in quanto persona desiderante e pensante, quindi
il bene di tutti. La Scuola è nella sua
essenza una realtà etica, ha per fine il
bene comune. Ma lo scopo dell’azienda è invece il profitto, o comunque la
produzione, in ogni caso il bene dell’azienda stessa. Entrando nella logica
dell’azienda dunque si entra automaticamente in una logica privata perché
un’azienda cerca di fare non il bene comune ma il proprio bene in concorrenza
con le altre aziende. Così si attribuisce alla scuola pubblica una logica
privata. Anche la scuola pubblica
diventa una copia di quella privata. A questo punto ogni scuola è
privata. Ma è ovvio che la scuola privata, l’originale, è più adatta di quella
pubblica che la imita, la copia, a incarnare questa logica e dunque è ovvio che
si tenda a favorire la scuola privata, foraggiandola di finanziamenti, e si
svantaggi quella pubblica, togliendole fondi (e giustificando i tagli con la
crisi economica, osserva Naldini). La scuola, nella logica dell’azienda, è
destinata a sbilanciarsi sempre più verso quella privata.
In questo modo la scuola diventa
un’azienda che vende un prodotto, chiamato formazione, comprato da studenti che
dunque sono clienti, consumatori di formazione, la quale pertanto diventa
merce, io te la vendo e tu me la paghi. Scrive Nappini che le nuove
politiche neoliberali...hanno imposto...l’idea che sia utile passare a logiche
di mercato e considerare i discenti e le loro famiglie...come consumatori di
formazione. È quella che egli chiama
la logica dello studente cliente riportando Max Weber quando scrive che dell’insegnante
che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le
sue nozioni per il denaro di mio padre come l’erbivendolo vende i cavoli a mia
madre. Così la filosofia del capitalismo diventa la filosofia della scuola
e la cultura subisce totalmente la logica dell’economia. L’economia sottomette
a sé la cultura. E la scuola diventa ideologica, apparato ideologico di
stato, come la chiamava Althusser, strumento di trasmissione dell’unica
ideologia rimasta, l’ideologia neoliberista.
Naturalmente per svolgere questa
funzione la scuola ha bisogno di essere seducente perché deve vincere la
competizione strappando clienti alle altre scuole, e così cerca di
imbellettarsi per presentarsi con l’aspetto migliore possibile, per fare colpo,
mostrandosi come una scuola dinamica che
fa mille attività, iniziative e progetti. Non importa se molti di questi sono
fumo e altri sottraggono prezioso tempo di studio, importante è risultare
attraenti, a costo di apparire più belli di quello che si è. È quella che
chiamerei la scuola prostituta. Così la scuola, che dovrebbe
essere custode di verità, diventa fonte di menzogna e fa passare il messaggio
che conta l’apparire più che l’essere. Del resto, se si fanno tanti progetti e
ci si mostra scuola all’avanguardia, si possono ricevere più soldi e il denaro
val bene qualche piccola bugia. Nota
Naldini che la scuola che sa essere più
attraente è quella che riceve più soldi e quindi offre maggiori opportunità,
con inevitabile divario tra scuole di serie A, B e C. E Nappini constata che si agisce secondo il concetto
di portare la concorrenza dentro il sistema scolastico e di far competere fra
loro le scuole anche nel senso di determinarne il successo o la chiusura. Perchè
la competizione fra scuole...in questa prospettiva darwiniana è una garanzia di
successo dell’istituto più forte.
Ma allora è evidente che il fine della
scuola non è più la formazione di persone libere, con un cuore desiderante e
appassionato e una mente pensante e critica, ma la preparazione al mondo del
lavoro. La scuola non è più indipendente, è dipendente dall’economia. Non è un
fine in sé, deve servire il lavoro. Così la scuola diventa tutta professionale,
anche i licei, perché ha fatto propria una logica professionale. Il suo fine
non è più accendere il desiderio di sapere ma imparare abilità e competenze che
servono al mondo del lavoro. Il fine non è più il bene (comune) ma l’utile
(privato). La scuola non è più una realtà etica ma economica. E il mondo del
lavoro del quale la scuola diventa semplice propedeutica non è il lavoro
libero, sicuro e gratificante di una società giusta, ma quello costretto,
insicuro e alienante dell'odierna società ingiusta. E' quello del capitalismo
neoliberistico globale, il mercato nel quale lo studente è destinato a
inserirsi come sfruttato, emarginato, precario, schiavo, secondo quella forma
odierna di schiavitù che è il lavoro precario senza diritti. Che la scuola
abbia per fine il lavoro è il trionfo del mercato e delle grandi forze
economiche e finanziarie. Il loro progetto è riuscito.
Questo spostamento gigantesco, nella
scuola, dalla cultura al mercato, si mostra nel modo più plateale nel
linguaggio. Il linguaggio della Scuola è scomparso, sostituito da quello
dell’azienda. Nappini lo definisce il predominio del linguaggio mercantile
nelle scuole. E così si parla di
profitto, capitale umano, risorse umane, debiti, crediti, domanda e offerta
formativa, investimenti formativi,
preside manager, anzi ormai nemmeno preside, parola che almeno conserva
un po' di calore (colui che siede avanti e accanto) ma il più algido dirigente, come i dirigenti
d’azienda che dirigono, cioè dicono loro in che direzione e verso quale meta si
deve andare, dotati, come scrive Naldini, di pieni poteri di direzione, coordinamento
e valorizzazione delle risorse umane.
Ma il linguaggio non è poco, è tanto, è
tutto. Il linguaggio esprime concetti, ideali, valori, visioni del mondo. Che
la scuola parli il linguaggio dell’economia significa che ha fatto propria l’ideologia dominante del
capitalismo neoliberista, ha introiettato le sue idee e i suoi valori:
individualismo, atomismo, produttività, performance, competizione, competenza,
efficienza, principio di prestazione, mito dell’affermazione individuale,
narcisismo. Come osserva Nappini: il denaro, il successo individuale,
l’aspetto esteriore e l’ostentazione della ricchezza sono...misura di tutti i
tipi di relazione...e sola prospettiva per gli umani rimane il successo, la
fama e l’arricchimento personale. E si vede il senso della vita come un
calcolo...dei costi sostenuti, profitti realizzati e piaceri ottenuti. E
ancora aggiunge che l’egemonia culturale è passata saldamente in mano al
pensiero unico neo-liberista. Così l’allievo smette di essere un essere
umano e diventa una macchina, come un computer da riempire di file, che deve
realizzare prestazioni adeguate.
E
tuttavia questi valori sono espressione di una filosofia. Anche l’ideologia ha
alle spalle una filosofia e in questo caso si tratta di una grande filosofia.
La sua base è l’equazione economia natura. L’economia, che oggi ha assunto la
forma dominante del capitalismo finanziario, è lo sviluppo più coerente della
natura umana, che è egoismo e volontà di potenza. Difatti in economia, come in
natura, vale un’unica legge che è la legge del più forte, dove i deboli
soccombono. L’uomo è un lupo e la vita è una lotta, di tutti contro tutti, è la
giungla dove vale la legge del più forte. È quella che Nappini chiama competizione
darwiniana. Dunque la giungla del mercato è naturale espressione della
giungla della vita. Il mercato è naturale. Così se ne cancella la sua genesi
storica; se il mercato e l’economia capitalistica sono nati nella storia
infatti, come tutto ciò che nasce, sono destinati a morire, se invece sono naturali,
come il fuoco che scalda, sono destinati ad esistere sempre. In quanto naturale
il capitalismo viene eternizzato. È questa la filosofia dell’attuale
capitalismo finanziario, ma appunto ha dietro di sé una grande tradizione
filosofica, il pensiero di Callicle, Hobbes,
Locke, Smith, Nietzsche. Non
sarebbe possibile la speculazione finanziaria senza la filosofia. È sempre la
filosofia che decide. Così la giungla della natura, che è la giungla del
mercato, diventa anche la giungla della scuola e la filosofia del capitalismo
finanziario diventa anche la filosofia della scuola.
In qualcosa questa concezione dice il
vero: il mercato senza limiti è esattamente la giungla, lo stato di natura di
Hobbes, dove vige solo la legge del più forte ed è l'inferno degli ultimi. Se
poi qualcuno crede ancora davvero che una mano invisibile conduca la giungla
degli egoismi particolari al bene generale non resta che congratularsi di tanta
innocente e stupefacente ingenuità. Ma basterebbe dar voce al numero
incalcolabile dei morti e gli affamati del nostro tempo per smentirlo
drasticamente.
Così ai valori propri della Scuola, cooperazione, solidarietà, relazione,
incontro, valorizzazione di tutti, si sostituiscono quelli del mercato,
produttività, competizione, conflitto e così
via, appunto perché la vita è una gara e una dura lotta. Guai a chi resta
indietro. Si entra così, scrive Nappini, in una dimensione di dissoluzione
della collettività e della socialità perché viviamo nel tempo
dell’egemonia del pensiero neoliberale per cui la prospettiva
individualistica...si è trasformata nell’unico orizzonte di senso.
Questa filosofia deve entrare anche
nelle teste degli insegnanti. La cosiddetta buona scuola (che si
autoelogia da sola e, in quanto buona, non può essere criticata perchè se è
buona qualsiasi critica ad essa non può essere che cattiva) istituisce il bonus
di merito per loro. Non sia mai che gli insegnanti, umiliati e offesi, che
hanno gli stipendi più bassi d’Europa e, scrive Nappini, in un mondo in cui
contano le nude cifre dell’economia...sono relegati in basso nella scala della
gerarchia sociale, debbano avere un adeguamento generalizzato di stipendio
e una rivalutazione del loro ruolo e della loro considerazione sociale! Certo
che no, solo i bravi, quelli che lo meritano. Si manifesta qui un atteggiamento
di fondo di sfiducia nei confronti degli insegnanti, una diffidenza che porta a
pensare, spesso a dare per scontato, che non facciano nulla, lavorino poco,
figuriamoci, appena 18 ore la settimana, e che solo i pochi che meritano
abbiano diritto a un premio anche economico.
In questo modo si dividono gli
insegnanti, si insinua appunto tra di loro una logica di competizione, invidia,
risentimento. E così si avvelena la scuola. Certo docenti divisi, che litigano
tra loro, si controllano meglio, gli si fa fare più facilmente quello che si
vuole. Divide et impera, ovviamente. Pertanto la scuola viene divisa tra
insegnanti di serie A e di serie B, togliendo autorità, anche in classe davanti
agli studenti, a quelli di serie B che, si penserà, evidentemente sono meno
bravi.
In realtà non è vero nemmeno questo
perché chiediamoci: in che modo si scelgono gli insegnanti che meritano? Qui
tocchiamo il punto forse più centrale e più doloroso, perché si ha veramente la
misura di come la Scuola sia stata snaturata. L’essenza di questo lavoro,
l’insegnamento, è l’ora di lezione, secondo la felice espressione usata
dal bel libro di Massimo Recalcati. L’ora di lezione è il tempo in cui
l’insegnante svolge il suo lavoro di accendere il desiderio, suscitare l’amore, il pensiero, la critica,
comunicare il messaggio che è possibile vivere una vita piena di senso.
Qui si vede il merito dell’insegnante.
Ma per ottenere questo deve fare un grande lavoro, di studio a casa, di
preparazione delle lezioni, di riflessione su cosa dire, come dirlo, e cosa non
dire, e in che modo interessare, toccare, infiammare gli studenti, e come
rivivere lui stesso in modo nuovo, rivitalizzando ogni volta, ciò che ha
spiegato già mille volte, e come capire i messaggi che vengono dai ragazzi, le
loro difficoltà, uno per uno, curando la relazione, più importante dei
contenuti. Questo è il lavoro che merita. Questo è, nella scuola, tutto. Ma per
far bene questo l’insegnante ha bisogno di tanto tempo, tempo libero a casa
prima di tutto da dedicare allo studio e alla preparazione del suo lavoro.
Oltre che di classi meno numerose, Naldini si chiede come è possibile
garantire il diritto ad apprendere e la crescita educativa di tutti gli alunni
in classi pollaio dove sono ammassati 27-30 studenti. Sarebbe facile,
dateci classi di 10-12 studenti e d’un colpo la buona scuola sarà fatta.
Purtroppo però tutto questo lavoro, che
è l’essenziale, è proprio quello che non si vede, l'essenziale, si sa, è
invisibile agli occhi, e allora il bonus
di merito non può premiarlo, cioè il bonus di merito non può premiare il lavoro
che merita. Pertanto viene assegnato a chi fa altro, iniziative, progetti,
attività extracurriculari aggiuntivi, non essenziali, per i quali si sottrae
tempo a ciò che è essenziale. E così spesso si premia non il merito ma il
demerito.
E chi lo attribuisce il bonus di merito?
C’è un comitato di valutazione di docenti, che, se dovessero decidere loro, si
troverebbero quasi nella posizione di moderni Kapò della scuola, arbitri dello
stipendio e della reputazione dei colleghi; in realtà però non contano nulla
essendo la decisione finale esclusivamente nelle mani del Dirigente che premia
spesso appunto chi non merita, in modo assai oscuro. Naldini scrive che i
Dirigenti Scolastici devono valutare gli insegnanti con un comitato a loro
totalmente asservito. I premiati ricevono soldi pubblici in più senza che
si sappia pubblicamente chi sono, per quale motivo li abbiano presi e perché
non li abbiano presi gli altri. Si sa solo che ci sono criteri di attribuzione,
e quali, ma sono molto vaghi e lasciano grande spazio all’arbitrio, mentre il
resto è avvolto dall’omertà, alla faccia della trasparenza della pubblica
amministrazione. Naldini è lapidaria: Trasparenza è parola estranea a molti
Dirigenti scolastici...
Che il Dirigente abbia tutti questi
poteri, come anche la chiamata diretta dei docenti, con cui, scrive ancora
Naldini, ogni possibile opposizione dei docenti neo-assunti o precari è
stata definitivamente stroncata, non stupisce. La concentrazione di potere
nelle mani del dirigente rende la scuola meno democratica. La democrazia
è il potere che sale dal basso, una scuola in cui il potere è accentrato e
scende dall’alto è meno democratica e più autoritaria. Lo stesso Nappini parla
della trasformazione della scuola pubblica in senso tanto centralizzato
quanto autoritario. Ma, dicevo, non stupisce. La democrazia è uno dei
limiti maggiori di cui il capitalismo globale deve sbarazzarsi giacchè il fine
della democrazia ossia il bene comune è diverso da quello del capitalismo cioè
il profitto privato, pertanto questi ha bisogno di figure, i Dirigenti, nella
scuola e nello stato, che eseguano fedelmente i suoi ordini per realizzare i
suoi scopi. In questo senso non solo la cultura e la scuola ma anche la
politica e lo stato oggi sono morti perché hanno perso la loro anima per
diventare servi dei diktat del mercato e della finanza. Hanno venduto l’anima
al diavolo, e il diavolo è il capitalismo globale. La scuola è serva della politica
e la politica è serva dell’economia. Oggi l’economia è tutto, la politica, e la
Scuola, sono nulla.
Naturalmente togliere tempo e
riconoscimento a ciò che nella scuola è essenziale e rivolgere tempo e riconoscimento a ciò che è inessenziale, fa
scadere la qualità della scuola. L’aspetto più inquietante è che oggi l’ora di
lezione, cioè l’essenziale, è ai margini, mentre mille altre cose,
l’inessenziale, sono al centro. Tutto è rovesciato. La pietanza diventa
contorno e il contorno pietanza. Ma, di nuovo, anche questo serve. Serve al
Capitale per screditare la scuola pubblica e quindi valorizzare quella privata.
Scrive Naldini che il fine...è distruggere la scuola pubblica, o meglio
eliminare cultura ed istruzione, perché il mondo dell’economia e della finanza
nonché i poteri militari richiedono popoli ignoranti.
Il pubblico è uno dei grandi
limiti che il Capitale deve abbattere riducendolo a privato per poter scatenare
indisturbato, senza limiti, la propria brama di profitto. Da qui la tendenza a
privatizzare tutto, col neoliberismo, e pertanto anche la scuola. Certo la
scuola è l’istituzione pubblica più resistente, per questo il lavoro ai fianchi
dev’essere lento e profondo, penetrare nella testa della gente, ma la direzione
è quella di sostituire la scuola privata a quella pubblica come scuola di
qualità, alla maniera del mondo anglosassone, grande padre del neoliberismo, ma
come avviene in parte anche in Italia dove le università eccellenti sono quelle
private, per i ricchi. E' ovvio, se la logica è una logica di mercato, più
spendi più compri una merce migliore.
Eppure, come sappiamo, la Scuola è prima
di tutto un diritto, un diritto universale che una scuola privata, che ha
natura particolare, non può soddisfare e per la quale sarebbe necessaria un’autentica
scuola pubblica, a vocazione appunto universale. Mentre, scrive ancora Nappini,
nei paesi di cultura anglosassone come gli Stati Uniti e il Regno Unito
l’istruzione di buon livello è un bene che si può comprare e non è quindi un
diritto. Negli Stati Uniti la Costituzione non riconosce il diritto allo
studio, la scuola pubblica è un servizio sociale per i poveri che non possono
permettersi di pagare le scuole normali. E Nappini denuncia anche in modo
implacabile i tentativi, già realtà altrove, di introdurre anche nella scuola
italiana le aziende private, la
pubblicità, il marketing, il branding dell’istruzione, insomma
l’apertura della scuola al capitale privato che la vede come straordinaria
occasione di lucro per saziare la propria comunque insaziabile voracità.
Coerente con tutto questo processo è
anche la malattia, di cui oggi la scuola
soffre gravemente, dello scientismo.
È evidente, il capitalismo globale, il massimo potere della terra, può
esercitare la sua forza grazie alla potenza della scienza e della tecnica.
Scienza e tecnica hanno per fine il dominio
ed è grazie alla scienza e alla tecnica che il capitalismo domina il
mondo. Ma il dominio ha bisogno di specializzazione.
Per dominare qualcosa la devo conoscere nei minimi dettagli e per conoscerla
nei minimi dettagli devo possedere un sapere analitico fortemente
specializzato. In questo modo s’impone l’ideologia scientista che il vero
sapere è quello che serve e quello che serve è quello che ci permette di
dominare e quello che ci permette di dominare è il sapere altamente
specializzato, cioè tecnico scientifico, che pertanto è l’unico sapere utile.
Espressione evidente di questa visione
neoliberista e scientista è la cosiddetta scuola delle tre i, inglese,
impresa, informatica. Beh! mettere al centro della scuola l’impresa è
un’evidente, spudorata ammissione che la
scuola deve servire al mercato, all’organizzazione capitalistica del lavoro.
Mettere al centro l’informatica serve a integrarsi nell’attuale mondo
globalizzato ma non certo a formarsene una visione complessiva e a criticarlo.
E poi l’inglese.
Nessuno nega ovviamente che sia oggi
importante conoscere l’inglese, che sia segno di un nostro provincialismo
culturale italiano conoscerlo troppo poco e che non ci si debba chiudere in
modo nazionalistico ad altre lingue e culture e in particolare alla lingua e
alla cultura più diffuse del mondo. Ma occorre anche stabilire dei limiti. È
giusto usare una parola inglese quando non c’è una parola italiana per
esprimere o per esprimere al meglio un concetto, ma non lo è quando esiste già
una parola italiana. Perché, se sostituiamo le nostre parole con parole
inglesi, permettiamo che la nostra lingua sia colonizzata da un’altra.
Svendiamo la nostra lingua e la nostra cultura, così dense di tradizione e di storia, come fossero
inadeguate e inferiori. Favoriamo il processo con cui il capitalismo
finanziario, che parla inglese, diventa globale e colonizza il mondo. L’inglese
che ci sta invadendo non è quello della cultura, non è l’inglese di Shakespeare,
ma quello dell’economia, è l’inglese della finanza: governance, spread, Jobs
act e così via. Il dilagare dell’inglese è oggi uno dei segni più evidenti
della colonizzazione del mondo da parte del capitale finanziario.
Per non parlare del progetto CLIL. Ci
può essere qualcosa di più insensato che far insegnare in lingua inglese
docenti di altre materie, che conoscono la lingua meno dei propri studenti? Se
si parla tanto di competenze, non dovrebbe insegnare in inglese solo chi ha la
competenza per farlo? Non basta fare un rapido corso e prendere in fretta un
diploma per parlare una lingua, e poi
l’insegnamento Clil, anche dove viene messo in atto, si riduce alla
preparazione di un’unità didattica di mezza paginetta in un intero anno, che
però costa al docente una penosa fatica. Ma l’argomento non merita nemmeno di
sprecarci tempo, tanto è evidente l’assurdità. Per fortuna è un’esperienza che
è già fallita sul campo, alla prova dei fatti, e non ci voleva molto per
prevedere questo risultato. In conclusione quindi restiamo sì aperti
all’inglese ma difendiamo anche la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra
storia, la nostra identità, affinché la globalizzazione sia un arricchimento
nell’unità tollerante delle differenze e non l’impoverimento di un’unità
intollerante che le cancella. Se non c’è la parola italiana, sia benvenuta
anche quella inglese, però, se la parola italiana c’è, allora preferiamo lei.
Ma, tornando allo scientismo, è chiaro
che, se il sapere dello scientismo è analitico, non è sintetico. Se è particolare non è globale. Se vede solo
la parte non vede il tutto, e se non vede il tutto non capisce davvero. Dunque
oggi la scuola vuole formare persone abili e competenti a risolvere singoli
problemi, abilità e competenze da valorizzare poi nel mondo del lavoro, ma
incapaci di una visione globale e quindi di vera comprensione e di
critica. Persone competenti ma stupide, che sanno calcolare ma non pensare,
l’ideale per gli scopi del capitale. La pedagogia delle competenze, oggi
dilagante nella scuola, proprio per la sua finalizzazione al mondo del lavoro,
cioè al mercato, è conservatrice, serve a inserirsi nel mondo senza criticarlo
e quindi a conservarlo com’è.
A questo è finalizzato il dominio di
pratiche analitico scientifiche nella scuola. Esempio l’abuso delle griglie di
valutazione, che spezzettano una prova, scritta o orale, dando un singolo voto
a ogni suo aspetto e poi facendo la somma. Il che è come fare l’anatomia di una
persona viva: ovviamente la si uccide. Una prova, come un’interrogazione o un
compito, è una totalità organica, che palpita di vita, e allora la valutazione
dev’essere una valutazione sintetica, globale, nella quale conta anche
l’intuizione dell’insegnante, altrimenti si perde la prova perché, tagliandola
la si uccide e la si fa diventare, da cosa viva, cosa morta. Difatti la maggior
parte degli insegnanti prima dà un voto globale dentro di sé alla prova e poi
lo aggiusta dividendolo in giudizi parziali. Il tutto è qualcosa di più della
somma delle parti, questo principio semplice della Gestalt è completamente
dimenticato dai nostri pedagogisti malati di scientismo. Le griglie di
valutazione sono una peste della scuola, la tendenza diabolica a voler
quantificare e misurare tutto, anche ciò che non si può.
E così l’uso di somministrare
questionari, test e quiz di tutti i tipi in modo da permettere una
valutazione più oggettiva, per fare come gli anglosassoni, perché quello che
conta non è se lo studente ha sviluppato un proprio interesse ma se sa la
nozione e sa fare la crocetta giusta. Se poi azzecca tirando a caso pazienza.
Conta la quantità di risposte giuste. Conta la quantità. Così quello studente
lo possiamo numerare. Naldini parla di una scuola che, con gli INVALSI ed i quizzoni obbliga i giovani al nozionismo.
Oppure la cosiddetta Unità di
Apprendimento, della quale nessuno ha capito bene cosa sia. Ciò che si
capisce è che si tratta di impostare in ogni materia un lavoro su un argomento
specifico che comprenda una somma di unità didattiche da svolgere durante l’anno.
Ma il compito della scuola, prima dell’università, è quello di fornire allo
studente le strutture fondamentali di ogni materia. E una struttura è una
totalità, come la struttura che sorregge un edificio. Se si fa per un certo
tempo un lavoro specifico si compromette la possibilità di lavorare per formare
un quadro generale. La scuola che precede l’università dev’essere sintetica, a
vari livelli di difficoltà nei diversi livelli di scuola. L’università poi sarà
analitica. L’Unità di Apprendimento che, in quanto lavoro analitico e
specifico, ostacola, impoverisce o addirittura compromette un lavoro volto
all’apprendimento di una visione globale, della struttura di una materia,
lavora a formare menti che vedono solo la parte e non il tutto, e chi non vede
il tutto non può né capirlo né criticarlo. Ad avere cura dell’intero è la
filosofia. Se l’essenza della Scuola è filosofica, la scuola reale è
antifilosofica.
Pertanto al dominio attuale dello
scientismo occorre contrapporre una rivalutazione delle materie umanistiche,
volte a formare l’uomo. Naldini evidenzia la tendenza a togliere ore di
insegnamento a discipline che promuovono lo spirito critico e la libera
riflessione come Filosofia, Storia, Diritto, materie umanistiche. E Nappini
osserva un processo che tende a svalutare le materie umanistiche le quali
dovrebbero, per loro natura, ampliare le capacità critiche della gioventù, far
sviluppare la capacità di pensare e capire la realtà. Ciò non vuol dire
trascurare o svalorizzare quelle scientifiche ma riassestare il rapporto ora
troppo sbilanciato a loro favore. Si
dice che con le materie umanistiche non si trova lavoro. E dopo che faccio?
Troverò lavoro? Ma già questa domanda è un
tradimento della Scuola. La Scuola vuole che tu trascorra il tuo tempo libero
godendo ora della tua formazione e non pensando a quale lavoro dopo. Occorre
rivalutare le materie umanistiche che danno una visione globale e quindi
critica e intelligente del mondo. Chi ha
capacità di avere una visione globale, critica e intelligente sarà facilitato
anche a trovare lavoro. La Scuola non è finalizzata al lavoro ma alla
formazione e tuttavia la formazione di una persona appassionata e intelligente
è anche lo strumento migliore per il lavoro. Eppure, scrive Nappini, le
tendenze in atto sono quelle di vendere pacchetti di conoscenze per formare
rapidamente tecnici da immettere nel mercato del lavoro col pericolo di porre
in essere una vera e propria catastrofe culturale nel campo umanistico.
La finalizzazione della scuola al
lavoro, al mercato, e non all’uomo, è evidente nell’introduzione scolastica
dell’esperienza scuola lavoro. È
un’innovazione che prima di tutto mette in grande difficoltà sia gli studenti
che gli insegnanti. Gli studenti sono costretti a passare un periodo, mediamente
di quindici giorni, in un’azienda,
perdendo tempo di scuola, cioè libero dal lavoro, per un tempo di
lavoro. E vanno là dove si riesce a trovare, uno studente qua un altro là, in
modo del tutto disorganico rispetto all’attività scolastica, con la quale
l'attività di scuola lavoro non c’entra niente. E’ come inserire in un
organismo animale un corpo estraneo. Durante quel periodo gli studenti non
studiano, per se stessi, ma lavorano gratuitamente, non pagati, per altri, che
ne beneficiano. Una volta si chiamava sfruttamento, e per lo più di minori,
decretato per legge. E poi magari facessero l’esperienza tutti insieme! No, un
gruppo la fa un periodo un gruppo un altro, per cui i docenti si trovano in
tempi diversi classi con più alunni assenti, talvolta dimezzate, e non sanno
che fare, se spiegare o no, se fare verifiche o no. Mentre gli studenti perdono
spiegazioni e compiti col rischio poi di ritrovarsi indietro e in difficoltà.
Senza contare il tempo perso dagli insegnanti e i loro problemi nel trovare le
strutture, seguire i ragazzi, raccogliere le relazioni, leggerle, valutarle e
così via. Un compito oneroso e deviante che di nuovo sottrae tempo ed energie a
ciò che è essenziale. La Scuola oltre che un diritto è un privilegio, tanti
bambini del mondo non possono goderne, ma lo è perché è tempo di studio, libero
dal lavoro, non è tempo di lavoro. Il lavoro non può rubare alla Scuola il suo
tempo. L’esperienza scuola lavoro è un fallimento.
A questo proposito c’è da aggiungere
anche che il tempo di lavoro degli insegnanti è enormemente aumentato negli
ultimi anni, per fare riunioni di tutti i tipi di pomeriggio o svolgere mansioni, spesso burocratiche, a
casa, oltre che programmare, occuparsi di progetti, correggere i compiti e
mille altre cose. In particolare la figura del coordinatore è diventata
terribilmente oberata di impegni, senza che a questo aumento imponente di
lavoro sia stato corrisposto riconoscimento economico se non minimo.
Naturalmente così l’insegnante ha meno tempo per studiare e prepararsi le
lezioni e la qualità della scuola peggiora sempre di più.
Mentre sto scrivendo vengo a sapere che
la ministra Fedeli ha promosso per decreto una sperimentazione che prevede un
liceo di quattro anni con le ore annuali aumentate dalle attuali 900 fino a
1100-1220 occupando ovviamente parte delle vacanze con ore di scuola o di
esperienza scuola lavoro. Davvero non c’è mai fondo al peggio! Da un lato si
priva i ragazzi di un anno di scuola, di tempo libero per se stessi, di
arricchimento, per poterli immettere da sfruttati ancora prima e ancora più poveri culturalmente nel
mondo del lavoro, dall’altro si ruba loro il tempo, il tempo libero, il tempo
di vacanza. E così si ruba loro il diritto al riposo, al recupero, alla sosta,
a un tempo di indugio, di pausa, di silenzio, nel quale lavorare dentro e far
sedimentare e maturare i semi del proprio rapporto emotivo e mentale con la
vita. No, si deve riempire ogni vuoto, saturare tutto, produrre, produrre,
essere efficienti, chi resta indietro è perduto; il tempo libero, il tempo di
vacanza in fondo è tempo perso, secondo la mentalità efficientistica e
produttivistica del mercato e dei nostri politici, anche di sinistra, ormai
stregati dai mantra del neocapitalismo. Perché studiare un anno in più? Con la
cultura non si mangia, si fanno discorsi. Se ne può fare a meno. Meglio entrare
subito nel mercato, chè questa è una cosa seria, qui non si fanno chiacchiere.
E allora si ruba il tempo. Si ruba il tempo. Poche cose sono peggiori.
In conclusione dunque: oggi la
scuola non è la Scuola. È alienata, non è se stessa, ha perduto la propria
essenza. Nel rapporto conflittuale tra Scuola e potere il potere ha stravinto.
Ha fatto della Scuola il tempio del consenso alla sacralità del pensiero unico
neoliberista. La Scuola, il luogo dove si coltiva il cambiamento, è il triste
luogo della conservazione. La scuola reale è la scuola alienata. Scrive Nappini
alla fine che la prima vittima sociale di tutto questo è il
docente...l’altra vittima è la società italiana. E Naldini: quale può
essere il futuro di un paese che ha demolito il libero pensiero e la
possibilità di dire no?
Allora che fare? Resistere, resistere,
resistere. Ma come? Dove?
Nappini
afferma che la posta in gioco è il futuro della scuola italiana: scegliere
di seguire i modelli culturali nord americani o trovare una propria via? E
auspica una scuola pubblica che si faccia carico del problema della libertà
di pensiero. Ecco oggi il principale luogo di resistenza, quando il mondo è
stato ormai conquistato dal pensiero unico in una egemonia economica che è
diventata anche ideologica, è proprio la Scuola, e, per il compito universale
che è chiamata a svolgere, deve essere Scuola pubblica. Essa può rappresentare
l’autentico luogo di resistenza grazie alla sua natura profonda. Perché appunto
al di sotto dell’uso ideologico della scuola come strumento del potere batte
ancora il cuore dell’essenza della Scuola. L’insegnante è chiamato oggi a
ritrovare e custodire questa essenza, a svolgere il ruolo del paladino del
dissenso, del pensiero che sa dire no. Fare Scuola, cioè continuare a lavorare,
dedicare tempo ed energie per svolgere al meglio l’ora di lezione, per formare
cuori desideranti, amanti, appassionati, e menti libere, pensanti e critiche, è
la medicina più efficace per formare giovani di valore e costruire un futuro
aperto al cambiamento e a un mondo migliore e non al baratro verso cui ci
conduce il dominio attuale del capitale finanziario, ossia la potenza più
immensa e distruttiva che mai sia apparsa sulla faccia della terra e che, dopo
aver distrutto ogni valore che non sia il profitto ammantando di nichilismo il
nostro tempo, ci trascina a un mondo polare diviso tra una piccola minoranza di
padroni e una grande maggioranza di schiavi oppure verso il nulla di una catastrofe nucleare o
ecologica. La Scuola può essere ancora il principale luogo di resistenza al
nichilismo del nostro tempo. Come nota Nappini il senso del lavoro
dell’insegnante deve essere cercato nella qualità e nella dignità del suo agire
quotidiano. Il dovere del docente riposa nella sua coscienza...
Fare Scuola vuol dire fare cultura, sviluppare
l’amore per il sapere, cioè fare filosofia. Lo abbiamo visto, la Scuola, che ha
cura del desiderio di sapere, è, nella sua essenza, filosofica. L’economia, che
guarda la parte, non può capire al di là di se stessa, al di là della sua
parte. Solo la filosofia, che ha cura del Tutto, può capire il mondo. Solo la
filosofia può criticarlo. Solo la filosofia può cambiarlo.
Paolo Vannini
La scuola alienata
Il libro di Iacopo Nappini, Memoria
e confine. Viaggio nel mondo della scuola, con il quarto e ultimo capitolo
scritto da Francesca Naldini,
ricostruisce e analizza criticamente il processo storico con cui si è
arrivati allo stato attuale della scuola italiana. Nappini ripercorre con
grande lucidità e competenza le vicende della scuola nella storia d’Italia, per
le quali si potrebbe fare forse questa periodizzazione: scuola liberale, fascista, prima del ‘68,
dopo il ‘68 e dopo l’89 fino ad oggi. Finchè
Nappini, insieme a Naldini, approda a una denuncia radicale della
condizione attuale della scuola italiana. La sua lettura mi ha sollecitato a
buttar giù qualche considerazione su un tema così urgente e decisivo.
Cos’è la Scuola? La parola viene dal
greco Scholè, che significa tempo libero (dal lavoro e dalla guerra). E
indica quindi un tempo da dedicare a se stessi, al proprio arricchimento,
avendo come fine quella che i greci chiamavano paideia.
Paideia significa educazione ma
nel senso di una formazione umana completa e non professionale. La Scuola educa
a diventare un essere umano, prima che un fabbro o un falegname, dà quindi una
formazione globale, generale, non particolare e specialistica.
Paideia significa anche cultura,
ossia la Scuola è il tempo libero dedicato a coltivare se stessi, il
proprio corpo e il giardino della propria anima.
Ed essa è sì formazione, ma non
nel senso di imporre alla potenzialità ancora informe del ragazzo una forma
dall’esterno ma nel senso di aiutarlo a darsi da sé la propria forma
dall’interno, ad essere artefice di se stesso, a scolpire da sé la propria
statua.
Come ancora paideia è educazione ma non nel senso
di riempire dall’esterno la mente del ragazzo come un vaso vuoto, o in quello
di raddrizzare le viti storte, bensì in quello di aiutarlo a condurre fuori da
sé se stesso, le proprie idee e i propri valori, non quelli del docente, e nel
senso non di raddrizzare ma di rispettare ed amare le viti storte. Da questo
punto di vista ogni insegnante è una levatrice, come Socrate.
Paideia è quindi anche insegnamento, ma nel
senso che l’insegnante dev’essere capace non di suscitare indifferenza ma di
lasciare un segno nel ragazzo, nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita,
ossia deve saperlo affascinare accendendo in lui la fiamma del desiderio, l’amore
di sapere. E l’amore per il sapere è filosofia. Ogni vero insegnamento è
filosofia.
Paideia è infine anche istruzione,
cioè l’attività di fornire informazioni e nozioni, senza i quali si lavora sul
nulla, ma dove l’istruzione è solo una parte e non tutto e dove l’istruzione è
in funzione dell’educazione e non viceversa.
Dunque la Scuola è il tempo libero che
ha come scopo di aiutare la persona a diventare un essere umano, ad essere se
stessa nel modo migliore. Quello che i greci chiamavano aretè, virtù. Ma
cosa significa tempo libero dedicato a diventare un essere umano, ad
essere uomo nel modo migliore? Cos’è un essere
umano?
Da un lato, per Aristotele un essere
umano è un animale dotato di ragione: ciò che è proprio dell’uomo e lo
distingue da ogni altro essere è la razionalità, il pensiero. Ma il pensiero è
critica, capacità di distinguere. Dunque la Scuola è tempo libero per aiutare
la persona a sviluppare una testa pensante e critica.
E dall’altro lato, per Platone, si
impara solo attraverso l’amore. In questo senso la Scuola è il tempo libero
dedicato ad accendere il desiderio, che è ciò che accende la vita, quindi tempo
dedicato ad accendere la vita, a suscitare
la passione, l’amore di sapere, di nuovo filosofia. Ogni vera
scuola è filosofia, la quale anche per Aristotele nasce di fronte a qualcosa
che meraviglia e fa sorgere il desiderio, il desiderio di sapere. Qui lo scopo
è formare cuori desideranti, appassionati. Il segreto della scuola è l’amore.
Deve formare degli amanti. La scuola deve occuparsi solo dell’amore. Il suo
compito è accendere la vita.
Ecco dunque in sintesi, raccogliendo
le cose dette fin qui, la risposta alla domanda cos’ è la scuola? La
scuola è il tempo libero dedicato a formare persone libere che hanno cuori
desideranti e appassionati uniti a teste pensanti e critiche. Questo è tutto.
E se questo è ciò che la Scuola è,
questa è l’essenza della scuola. Per indicare la Scuola fedele alla sua
essenza, sto usando la parola con la lettera maiuscola. La Scuola, quella con
la lettera maiuscola, è la vera Scuola, la Scuola in quanto essa è se stessa, è
ciò che è. Ma ciò significa che l’essenza della scuola è intimamente
conflittuale rispetto al potere (politico e quindi economico). Giacché infatti
essa è filosofia, è l’attività di mettere in dubbio ciò che è dato per
scontato, e dunque la realtà esistente. La Scuola è il luogo per eccellenza
dove si ha cura delle condizioni del dissenso. La sua essenza è essere palestra
di persone che con passione pensano e criticano il mondo. E per questo lo
migliorano. La scuola è il motore del cambiamento e del progresso. E’ il luogo
dove si gettano i fondamenti per imparare a dire di no. È per natura dinamica e
destabilizzante laddove il potere è statico e conservativo.
Ma, se questa è l’essenza della Scuola,
cos’è la scuola oggi? Come si nota, occorre subito passare alla lettera
minuscola. La Scuola è la scuola ideale, la scuola come dovrebbe essere, la
scuola è la scuola reale, la scuola com’è. E La scuola reale oggi è
forse fedele alla propria essenza, è quello che è? Ecco, niente affatto, anzi
essa è esattamente l’opposto, non è più se stessa, è diventata altro dalla sua
essenza, si è alienata. E non è più indipendente dal potere e sguardo critico
su di esso ma strumento del potere, totalmente asservito ad esso. Com’è
avvenuto questo ribaltamento, frutto ovviamente di un lungo processo di
strumentalizzazione della scuola da parte del potere, com’è successo tutto ciò?
Per limitare il discorso a tempi non
troppo lontani, dopo che il ‘68, a partire da don Milani il quale, scrive
Nappini, vedeva la scuola come il luogo ove si formava il senso critico e il
singolo imparava a reagire ai condizionamenti e aveva denunciato il
carattere classista, punitivo e selettivo della scuola italiana, funzionale
all’economia capitalistica, assistiamo negli anni ‘80 (prendiamo l’89 come data
simbolo) alla poderosa controffensiva del capitalismo nella sua forma più
radicale e aggressiva, il neoliberismo, che non solo intende
riconquistare le posizioni perdute negli anni ‘60 e ‘70 ma vuole anche
stravincere abbattendo tutti gli ostacoli che pongono un limite al
raggiungimento del suo scopo, cioè il profitto privato. Il capitalismo è
volontà illimitata di profitto privato. Il capitalismo è senza limiti.
Ma non avere più limiti significa che il
capitalismo aspira a diventare tutto, mediante il processo che ha il nome di globalizzazione
ed indica l’estensione del capitalismo al mondo intero. Ossia il
capitalismo, da capitalismo limitato, aspira a diventare capitalismo globale,
cioè assoluto. Il che significa annientare appunto ogni limite, e i limiti maggiori rimasti, dopo aver sconfitto quello principale,
il comunismo, sono la politica, cioè lo stato, la religione, cioè la chiesa, e
la cultura, cioè la scuola. Annientarli non significa fare in modo che non
esistano più ma stravolgere la loro essenza per piegarli e deviarli verso un
altro fine. La politica, cioè l’attività di promuovere il bene comune, diventa
quella di realizzare il bene privato dei grandi poteri economici e finanziari,
la religione, cioè la fede in Dio, diventa fede in quel nuovo Dio che è il
denaro che, come scrive Nappini, da mezzo diviene scopo ultimo
dell’esistenza, la cultura, cioè l’attività di formare persone libere, pensanti e critiche, diventa
l’attività di preparare persone acritiche adatte al mercato, a creare, come
nota Naldini una futura massa di lavoratori privi di autostima, pronti a
inchinarsi di fronte al datore di lavoro.
Per quanto riguarda la scuola, dunque,
assistiamo alla realizzazione del poderoso progetto di progressiva distruzione
capitalistica della Scuola snaturandone l’essenza con riforme nelle quali, osserva
Nappini, il parere degli insegnanti di solito non è preso in considerazione
dalla politica che riforma la materia dall’alto. Il momento decisivo con
cui comincia questo processo è la riforma Berlinguer, proseguito poi da
tutte le riforme e governi successivi, di destra e di sinistra, ormai d’accordo
nella celebrazione del capitalismo come unico mondo possibile. Coerentemente
con quel grandioso processo con cui la sinistra ha fatto propria l’intera
ideologia della destra. Per cui, se ha un senso dire che è superata oggi
l’opposizione tra destra e sinistra, è solo perché la sinistra è diventata
destra (per quanto continui a chiamarsi sinistra). Ormai esiste solo la destra,
in quanto ciò che si chiama sinistra e ciò che si chiama destra crescono su un
terreno comune, la convinzione che il capitalismo sia intrascendibile e anche, nonostante
l’evidenza contraria, il migliore dei mondi possibili.
Il marchio di fabbrica di questo immane
processo di snaturamento della scuola, alienandola dalla propria essenza, è la
concezione, che s’impone con la riforma Berlinguer, della scuola come azienda.
A questo punto tutto è già stato fatto e ciò che viene dopo non è altro che una
logica esecuzione e conseguenza di questa premessa.
Si tratta di capire che qui avviene un
plateale rovesciamento di fine. La scuola azienda ha un fine diverso dalla
Scuola. Il fine della Scuola, lo abbiamo visto, è il bene di ciascun individuo
come aretè, virtù, cioè piena
realizzazione di ognuno in quanto persona desiderante e pensante, quindi
il bene di tutti. La Scuola è nella sua
essenza una realtà etica, ha per fine il
bene comune. Ma lo scopo dell’azienda è invece il profitto, o comunque la
produzione, in ogni caso il bene dell’azienda stessa. Entrando nella logica
dell’azienda dunque si entra automaticamente in una logica privata perché
un’azienda cerca di fare non il bene comune ma il proprio bene in concorrenza
con le altre aziende. Così si attribuisce alla scuola pubblica una logica
privata. Anche la scuola pubblica
diventa una copia di quella privata. A questo punto ogni scuola è
privata. Ma è ovvio che la scuola privata, l’originale, è più adatta di quella
pubblica che la imita, la copia, a incarnare questa logica e dunque è ovvio che
si tenda a favorire la scuola privata, foraggiandola di finanziamenti, e si
svantaggi quella pubblica, togliendole fondi (e giustificando i tagli con la
crisi economica, osserva Naldini). La scuola, nella logica dell’azienda, è
destinata a sbilanciarsi sempre più verso quella privata.
In questo modo la scuola diventa
un’azienda che vende un prodotto, chiamato formazione, comprato da studenti che
dunque sono clienti, consumatori di formazione, la quale pertanto diventa
merce, io te la vendo e tu me la paghi. Scrive Nappini che le nuove
politiche neoliberali...hanno imposto...l’idea che sia utile passare a logiche
di mercato e considerare i discenti e le loro famiglie...come consumatori di
formazione. È quella che egli chiama
la logica dello studente cliente riportando Max Weber quando scrive che dell’insegnante
che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le
sue nozioni per il denaro di mio padre come l’erbivendolo vende i cavoli a mia
madre. Così la filosofia del capitalismo diventa la filosofia della scuola
e la cultura subisce totalmente la logica dell’economia. L’economia sottomette
a sé la cultura. E la scuola diventa ideologica, apparato ideologico di
stato, come la chiamava Althusser, strumento di trasmissione dell’unica
ideologia rimasta, l’ideologia neoliberista.
Naturalmente per svolgere questa
funzione la scuola ha bisogno di essere seducente perché deve vincere la
competizione strappando clienti alle altre scuole, e così cerca di
imbellettarsi per presentarsi con l’aspetto migliore possibile, per fare colpo,
mostrandosi come una scuola dinamica che
fa mille attività, iniziative e progetti. Non importa se molti di questi sono
fumo e altri sottraggono prezioso tempo di studio, importante è risultare
attraenti, a costo di apparire più belli di quello che si è. È quella che
chiamerei la scuola prostituta. Così la scuola, che dovrebbe
essere custode di verità, diventa fonte di menzogna e fa passare il messaggio
che conta l’apparire più che l’essere. Del resto, se si fanno tanti progetti e
ci si mostra scuola all’avanguardia, si possono ricevere più soldi e il denaro
val bene qualche piccola bugia. Nota
Naldini che la scuola che sa essere più
attraente è quella che riceve più soldi e quindi offre maggiori opportunità,
con inevitabile divario tra scuole di serie A, B e C. E Nappini constata che si agisce secondo il concetto
di portare la concorrenza dentro il sistema scolastico e di far competere fra
loro le scuole anche nel senso di determinarne il successo o la chiusura. Perchè
la competizione fra scuole...in questa prospettiva darwiniana è una garanzia di
successo dell’istituto più forte.
Ma allora è evidente che il fine della
scuola non è più la formazione di persone libere, con un cuore desiderante e
appassionato e una mente pensante e critica, ma la preparazione al mondo del
lavoro. La scuola non è più indipendente, è dipendente dall’economia. Non è un
fine in sé, deve servire il lavoro. Così la scuola diventa tutta professionale,
anche i licei, perché ha fatto propria una logica professionale. Il suo fine
non è più accendere il desiderio di sapere ma imparare abilità e competenze che
servono al mondo del lavoro. Il fine non è più il bene (comune) ma l’utile
(privato). La scuola non è più una realtà etica ma economica. E il mondo del
lavoro del quale la scuola diventa semplice propedeutica non è il lavoro
libero, sicuro e gratificante di una società giusta, ma quello costretto,
insicuro e alienante dell'odierna società ingiusta. E' quello del capitalismo
neoliberistico globale, il mercato nel quale lo studente è destinato a
inserirsi come sfruttato, emarginato, precario, schiavo, secondo quella forma
odierna di schiavitù che è il lavoro precario senza diritti. Che la scuola
abbia per fine il lavoro è il trionfo del mercato e delle grandi forze
economiche e finanziarie. Il loro progetto è riuscito.
Questo spostamento gigantesco, nella
scuola, dalla cultura al mercato, si mostra nel modo più plateale nel
linguaggio. Il linguaggio della Scuola è scomparso, sostituito da quello
dell’azienda. Nappini lo definisce il predominio del linguaggio mercantile
nelle scuole. E così si parla di
profitto, capitale umano, risorse umane, debiti, crediti, domanda e offerta
formativa, investimenti formativi,
preside manager, anzi ormai nemmeno preside, parola che almeno conserva
un po' di calore (colui che siede avanti e accanto) ma il più algido dirigente, come i dirigenti
d’azienda che dirigono, cioè dicono loro in che direzione e verso quale meta si
deve andare, dotati, come scrive Naldini, di pieni poteri di direzione, coordinamento
e valorizzazione delle risorse umane.
Ma il linguaggio non è poco, è tanto, è
tutto. Il linguaggio esprime concetti, ideali, valori, visioni del mondo. Che
la scuola parli il linguaggio dell’economia significa che ha fatto propria l’ideologia dominante del
capitalismo neoliberista, ha introiettato le sue idee e i suoi valori:
individualismo, atomismo, produttività, performance, competizione, competenza,
efficienza, principio di prestazione, mito dell’affermazione individuale,
narcisismo. Come osserva Nappini: il denaro, il successo individuale,
l’aspetto esteriore e l’ostentazione della ricchezza sono...misura di tutti i
tipi di relazione...e sola prospettiva per gli umani rimane il successo, la
fama e l’arricchimento personale. E si vede il senso della vita come un
calcolo...dei costi sostenuti, profitti realizzati e piaceri ottenuti. E
ancora aggiunge che l’egemonia culturale è passata saldamente in mano al
pensiero unico neo-liberista. Così l’allievo smette di essere un essere
umano e diventa una macchina, come un computer da riempire di file, che deve
realizzare prestazioni adeguate.
E
tuttavia questi valori sono espressione di una filosofia. Anche l’ideologia ha
alle spalle una filosofia e in questo caso si tratta di una grande filosofia.
La sua base è l’equazione economia natura. L’economia, che oggi ha assunto la
forma dominante del capitalismo finanziario, è lo sviluppo più coerente della
natura umana, che è egoismo e volontà di potenza. Difatti in economia, come in
natura, vale un’unica legge che è la legge del più forte, dove i deboli
soccombono. L’uomo è un lupo e la vita è una lotta, di tutti contro tutti, è la
giungla dove vale la legge del più forte. È quella che Nappini chiama competizione
darwiniana. Dunque la giungla del mercato è naturale espressione della
giungla della vita. Il mercato è naturale. Così se ne cancella la sua genesi
storica; se il mercato e l’economia capitalistica sono nati nella storia
infatti, come tutto ciò che nasce, sono destinati a morire, se invece sono naturali,
come il fuoco che scalda, sono destinati ad esistere sempre. In quanto naturale
il capitalismo viene eternizzato. È questa la filosofia dell’attuale
capitalismo finanziario, ma appunto ha dietro di sé una grande tradizione
filosofica, il pensiero di Callicle, Hobbes,
Locke, Smith, Nietzsche. Non
sarebbe possibile la speculazione finanziaria senza la filosofia. È sempre la
filosofia che decide. Così la giungla della natura, che è la giungla del
mercato, diventa anche la giungla della scuola e la filosofia del capitalismo
finanziario diventa anche la filosofia della scuola.
In qualcosa questa concezione dice il
vero: il mercato senza limiti è esattamente la giungla, lo stato di natura di
Hobbes, dove vige solo la legge del più forte ed è l'inferno degli ultimi. Se
poi qualcuno crede ancora davvero che una mano invisibile conduca la giungla
degli egoismi particolari al bene generale non resta che congratularsi di tanta
innocente e stupefacente ingenuità. Ma basterebbe dar voce al numero
incalcolabile dei morti e gli affamati del nostro tempo per smentirlo
drasticamente.
Così ai valori propri della Scuola, cooperazione, solidarietà, relazione,
incontro, valorizzazione di tutti, si sostituiscono quelli del mercato,
produttività, competizione, conflitto e così
via, appunto perché la vita è una gara e una dura lotta. Guai a chi resta
indietro. Si entra così, scrive Nappini, in una dimensione di dissoluzione
della collettività e della socialità perché viviamo nel tempo
dell’egemonia del pensiero neoliberale per cui la prospettiva
individualistica...si è trasformata nell’unico orizzonte di senso.
Questa filosofia deve entrare anche
nelle teste degli insegnanti. La cosiddetta buona scuola (che si
autoelogia da sola e, in quanto buona, non può essere criticata perchè se è
buona qualsiasi critica ad essa non può essere che cattiva) istituisce il bonus
di merito per loro. Non sia mai che gli insegnanti, umiliati e offesi, che
hanno gli stipendi più bassi d’Europa e, scrive Nappini, in un mondo in cui
contano le nude cifre dell’economia...sono relegati in basso nella scala della
gerarchia sociale, debbano avere un adeguamento generalizzato di stipendio
e una rivalutazione del loro ruolo e della loro considerazione sociale! Certo
che no, solo i bravi, quelli che lo meritano. Si manifesta qui un atteggiamento
di fondo di sfiducia nei confronti degli insegnanti, una diffidenza che porta a
pensare, spesso a dare per scontato, che non facciano nulla, lavorino poco,
figuriamoci, appena 18 ore la settimana, e che solo i pochi che meritano
abbiano diritto a un premio anche economico.
In questo modo si dividono gli
insegnanti, si insinua appunto tra di loro una logica di competizione, invidia,
risentimento. E così si avvelena la scuola. Certo docenti divisi, che litigano
tra loro, si controllano meglio, gli si fa fare più facilmente quello che si
vuole. Divide et impera, ovviamente. Pertanto la scuola viene divisa tra
insegnanti di serie A e di serie B, togliendo autorità, anche in classe davanti
agli studenti, a quelli di serie B che, si penserà, evidentemente sono meno
bravi.
In realtà non è vero nemmeno questo
perché chiediamoci: in che modo si scelgono gli insegnanti che meritano? Qui
tocchiamo il punto forse più centrale e più doloroso, perché si ha veramente la
misura di come la Scuola sia stata snaturata. L’essenza di questo lavoro,
l’insegnamento, è l’ora di lezione, secondo la felice espressione usata
dal bel libro di Massimo Recalcati. L’ora di lezione è il tempo in cui
l’insegnante svolge il suo lavoro di accendere il desiderio, suscitare l’amore, il pensiero, la critica,
comunicare il messaggio che è possibile vivere una vita piena di senso.
Qui si vede il merito dell’insegnante.
Ma per ottenere questo deve fare un grande lavoro, di studio a casa, di
preparazione delle lezioni, di riflessione su cosa dire, come dirlo, e cosa non
dire, e in che modo interessare, toccare, infiammare gli studenti, e come
rivivere lui stesso in modo nuovo, rivitalizzando ogni volta, ciò che ha
spiegato già mille volte, e come capire i messaggi che vengono dai ragazzi, le
loro difficoltà, uno per uno, curando la relazione, più importante dei
contenuti. Questo è il lavoro che merita. Questo è, nella scuola, tutto. Ma per
far bene questo l’insegnante ha bisogno di tanto tempo, tempo libero a casa
prima di tutto da dedicare allo studio e alla preparazione del suo lavoro.
Oltre che di classi meno numerose, Naldini si chiede come è possibile
garantire il diritto ad apprendere e la crescita educativa di tutti gli alunni
in classi pollaio dove sono ammassati 27-30 studenti. Sarebbe facile,
dateci classi di 10-12 studenti e d’un colpo la buona scuola sarà fatta.
Purtroppo però tutto questo lavoro, che
è l’essenziale, è proprio quello che non si vede, l'essenziale, si sa, è
invisibile agli occhi, e allora il bonus
di merito non può premiarlo, cioè il bonus di merito non può premiare il lavoro
che merita. Pertanto viene assegnato a chi fa altro, iniziative, progetti,
attività extracurriculari aggiuntivi, non essenziali, per i quali si sottrae
tempo a ciò che è essenziale. E così spesso si premia non il merito ma il
demerito.
E chi lo attribuisce il bonus di merito?
C’è un comitato di valutazione di docenti, che, se dovessero decidere loro, si
troverebbero quasi nella posizione di moderni Kapò della scuola, arbitri dello
stipendio e della reputazione dei colleghi; in realtà però non contano nulla
essendo la decisione finale esclusivamente nelle mani del Dirigente che premia
spesso appunto chi non merita, in modo assai oscuro. Naldini scrive che i
Dirigenti Scolastici devono valutare gli insegnanti con un comitato a loro
totalmente asservito. I premiati ricevono soldi pubblici in più senza che
si sappia pubblicamente chi sono, per quale motivo li abbiano presi e perché
non li abbiano presi gli altri. Si sa solo che ci sono criteri di attribuzione,
e quali, ma sono molto vaghi e lasciano grande spazio all’arbitrio, mentre il
resto è avvolto dall’omertà, alla faccia della trasparenza della pubblica
amministrazione. Naldini è lapidaria: Trasparenza è parola estranea a molti
Dirigenti scolastici...
Che il Dirigente abbia tutti questi
poteri, come anche la chiamata diretta dei docenti, con cui, scrive ancora
Naldini, ogni possibile opposizione dei docenti neo-assunti o precari è
stata definitivamente stroncata, non stupisce. La concentrazione di potere
nelle mani del dirigente rende la scuola meno democratica. La democrazia
è il potere che sale dal basso, una scuola in cui il potere è accentrato e
scende dall’alto è meno democratica e più autoritaria. Lo stesso Nappini parla
della trasformazione della scuola pubblica in senso tanto centralizzato
quanto autoritario. Ma, dicevo, non stupisce. La democrazia è uno dei
limiti maggiori di cui il capitalismo globale deve sbarazzarsi giacchè il fine
della democrazia ossia il bene comune è diverso da quello del capitalismo cioè
il profitto privato, pertanto questi ha bisogno di figure, i Dirigenti, nella
scuola e nello stato, che eseguano fedelmente i suoi ordini per realizzare i
suoi scopi. In questo senso non solo la cultura e la scuola ma anche la
politica e lo stato oggi sono morti perché hanno perso la loro anima per
diventare servi dei diktat del mercato e della finanza. Hanno venduto l’anima
al diavolo, e il diavolo è il capitalismo globale. La scuola è serva della politica
e la politica è serva dell’economia. Oggi l’economia è tutto, la politica, e la
Scuola, sono nulla.
Naturalmente togliere tempo e
riconoscimento a ciò che nella scuola è essenziale e rivolgere tempo e riconoscimento a ciò che è inessenziale, fa
scadere la qualità della scuola. L’aspetto più inquietante è che oggi l’ora di
lezione, cioè l’essenziale, è ai margini, mentre mille altre cose,
l’inessenziale, sono al centro. Tutto è rovesciato. La pietanza diventa
contorno e il contorno pietanza. Ma, di nuovo, anche questo serve. Serve al
Capitale per screditare la scuola pubblica e quindi valorizzare quella privata.
Scrive Naldini che il fine...è distruggere la scuola pubblica, o meglio
eliminare cultura ed istruzione, perché il mondo dell’economia e della finanza
nonché i poteri militari richiedono popoli ignoranti.
Il pubblico è uno dei grandi
limiti che il Capitale deve abbattere riducendolo a privato per poter scatenare
indisturbato, senza limiti, la propria brama di profitto. Da qui la tendenza a
privatizzare tutto, col neoliberismo, e pertanto anche la scuola. Certo la
scuola è l’istituzione pubblica più resistente, per questo il lavoro ai fianchi
dev’essere lento e profondo, penetrare nella testa della gente, ma la direzione
è quella di sostituire la scuola privata a quella pubblica come scuola di
qualità, alla maniera del mondo anglosassone, grande padre del neoliberismo, ma
come avviene in parte anche in Italia dove le università eccellenti sono quelle
private, per i ricchi. E' ovvio, se la logica è una logica di mercato, più
spendi più compri una merce migliore.
Eppure, come sappiamo, la Scuola è prima
di tutto un diritto, un diritto universale che una scuola privata, che ha
natura particolare, non può soddisfare e per la quale sarebbe necessaria un’autentica
scuola pubblica, a vocazione appunto universale. Mentre, scrive ancora Nappini,
nei paesi di cultura anglosassone come gli Stati Uniti e il Regno Unito
l’istruzione di buon livello è un bene che si può comprare e non è quindi un
diritto. Negli Stati Uniti la Costituzione non riconosce il diritto allo
studio, la scuola pubblica è un servizio sociale per i poveri che non possono
permettersi di pagare le scuole normali. E Nappini denuncia anche in modo
implacabile i tentativi, già realtà altrove, di introdurre anche nella scuola
italiana le aziende private, la
pubblicità, il marketing, il branding dell’istruzione, insomma
l’apertura della scuola al capitale privato che la vede come straordinaria
occasione di lucro per saziare la propria comunque insaziabile voracità.
Coerente con tutto questo processo è
anche la malattia, di cui oggi la scuola
soffre gravemente, dello scientismo.
È evidente, il capitalismo globale, il massimo potere della terra, può
esercitare la sua forza grazie alla potenza della scienza e della tecnica.
Scienza e tecnica hanno per fine il dominio
ed è grazie alla scienza e alla tecnica che il capitalismo domina il
mondo. Ma il dominio ha bisogno di specializzazione.
Per dominare qualcosa la devo conoscere nei minimi dettagli e per conoscerla
nei minimi dettagli devo possedere un sapere analitico fortemente
specializzato. In questo modo s’impone l’ideologia scientista che il vero
sapere è quello che serve e quello che serve è quello che ci permette di
dominare e quello che ci permette di dominare è il sapere altamente
specializzato, cioè tecnico scientifico, che pertanto è l’unico sapere utile.
Espressione evidente di questa visione
neoliberista e scientista è la cosiddetta scuola delle tre i, inglese,
impresa, informatica. Beh! mettere al centro della scuola l’impresa è
un’evidente, spudorata ammissione che la
scuola deve servire al mercato, all’organizzazione capitalistica del lavoro.
Mettere al centro l’informatica serve a integrarsi nell’attuale mondo
globalizzato ma non certo a formarsene una visione complessiva e a criticarlo.
E poi l’inglese.
Nessuno nega ovviamente che sia oggi
importante conoscere l’inglese, che sia segno di un nostro provincialismo
culturale italiano conoscerlo troppo poco e che non ci si debba chiudere in
modo nazionalistico ad altre lingue e culture e in particolare alla lingua e
alla cultura più diffuse del mondo. Ma occorre anche stabilire dei limiti. È
giusto usare una parola inglese quando non c’è una parola italiana per
esprimere o per esprimere al meglio un concetto, ma non lo è quando esiste già
una parola italiana. Perché, se sostituiamo le nostre parole con parole
inglesi, permettiamo che la nostra lingua sia colonizzata da un’altra.
Svendiamo la nostra lingua e la nostra cultura, così dense di tradizione e di storia, come fossero
inadeguate e inferiori. Favoriamo il processo con cui il capitalismo
finanziario, che parla inglese, diventa globale e colonizza il mondo. L’inglese
che ci sta invadendo non è quello della cultura, non è l’inglese di Shakespeare,
ma quello dell’economia, è l’inglese della finanza: governance, spread, Jobs
act e così via. Il dilagare dell’inglese è oggi uno dei segni più evidenti
della colonizzazione del mondo da parte del capitale finanziario.
Per non parlare del progetto CLIL. Ci
può essere qualcosa di più insensato che far insegnare in lingua inglese
docenti di altre materie, che conoscono la lingua meno dei propri studenti? Se
si parla tanto di competenze, non dovrebbe insegnare in inglese solo chi ha la
competenza per farlo? Non basta fare un rapido corso e prendere in fretta un
diploma per parlare una lingua, e poi
l’insegnamento Clil, anche dove viene messo in atto, si riduce alla
preparazione di un’unità didattica di mezza paginetta in un intero anno, che
però costa al docente una penosa fatica. Ma l’argomento non merita nemmeno di
sprecarci tempo, tanto è evidente l’assurdità. Per fortuna è un’esperienza che
è già fallita sul campo, alla prova dei fatti, e non ci voleva molto per
prevedere questo risultato. In conclusione quindi restiamo sì aperti
all’inglese ma difendiamo anche la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra
storia, la nostra identità, affinché la globalizzazione sia un arricchimento
nell’unità tollerante delle differenze e non l’impoverimento di un’unità
intollerante che le cancella. Se non c’è la parola italiana, sia benvenuta
anche quella inglese, però, se la parola italiana c’è, allora preferiamo lei.
Ma, tornando allo scientismo, è chiaro
che, se il sapere dello scientismo è analitico, non è sintetico. Se è particolare non è globale. Se vede solo
la parte non vede il tutto, e se non vede il tutto non capisce davvero. Dunque
oggi la scuola vuole formare persone abili e competenti a risolvere singoli
problemi, abilità e competenze da valorizzare poi nel mondo del lavoro, ma
incapaci di una visione globale e quindi di vera comprensione e di
critica. Persone competenti ma stupide, che sanno calcolare ma non pensare,
l’ideale per gli scopi del capitale. La pedagogia delle competenze, oggi
dilagante nella scuola, proprio per la sua finalizzazione al mondo del lavoro,
cioè al mercato, è conservatrice, serve a inserirsi nel mondo senza criticarlo
e quindi a conservarlo com’è.
A questo è finalizzato il dominio di
pratiche analitico scientifiche nella scuola. Esempio l’abuso delle griglie di
valutazione, che spezzettano una prova, scritta o orale, dando un singolo voto
a ogni suo aspetto e poi facendo la somma. Il che è come fare l’anatomia di una
persona viva: ovviamente la si uccide. Una prova, come un’interrogazione o un
compito, è una totalità organica, che palpita di vita, e allora la valutazione
dev’essere una valutazione sintetica, globale, nella quale conta anche
l’intuizione dell’insegnante, altrimenti si perde la prova perché, tagliandola
la si uccide e la si fa diventare, da cosa viva, cosa morta. Difatti la maggior
parte degli insegnanti prima dà un voto globale dentro di sé alla prova e poi
lo aggiusta dividendolo in giudizi parziali. Il tutto è qualcosa di più della
somma delle parti, questo principio semplice della Gestalt è completamente
dimenticato dai nostri pedagogisti malati di scientismo. Le griglie di
valutazione sono una peste della scuola, la tendenza diabolica a voler
quantificare e misurare tutto, anche ciò che non si può.
E così l’uso di somministrare
questionari, test e quiz di tutti i tipi in modo da permettere una
valutazione più oggettiva, per fare come gli anglosassoni, perché quello che
conta non è se lo studente ha sviluppato un proprio interesse ma se sa la
nozione e sa fare la crocetta giusta. Se poi azzecca tirando a caso pazienza.
Conta la quantità di risposte giuste. Conta la quantità. Così quello studente
lo possiamo numerare. Naldini parla di una scuola che, con gli INVALSI ed i quizzoni obbliga i giovani al nozionismo.
Oppure la cosiddetta Unità di
Apprendimento, della quale nessuno ha capito bene cosa sia. Ciò che si
capisce è che si tratta di impostare in ogni materia un lavoro su un argomento
specifico che comprenda una somma di unità didattiche da svolgere durante l’anno.
Ma il compito della scuola, prima dell’università, è quello di fornire allo
studente le strutture fondamentali di ogni materia. E una struttura è una
totalità, come la struttura che sorregge un edificio. Se si fa per un certo
tempo un lavoro specifico si compromette la possibilità di lavorare per formare
un quadro generale. La scuola che precede l’università dev’essere sintetica, a
vari livelli di difficoltà nei diversi livelli di scuola. L’università poi sarà
analitica. L’Unità di Apprendimento che, in quanto lavoro analitico e
specifico, ostacola, impoverisce o addirittura compromette un lavoro volto
all’apprendimento di una visione globale, della struttura di una materia,
lavora a formare menti che vedono solo la parte e non il tutto, e chi non vede
il tutto non può né capirlo né criticarlo. Ad avere cura dell’intero è la
filosofia. Se l’essenza della Scuola è filosofica, la scuola reale è
antifilosofica.
Pertanto al dominio attuale dello
scientismo occorre contrapporre una rivalutazione delle materie umanistiche,
volte a formare l’uomo. Naldini evidenzia la tendenza a togliere ore di
insegnamento a discipline che promuovono lo spirito critico e la libera
riflessione come Filosofia, Storia, Diritto, materie umanistiche. E Nappini
osserva un processo che tende a svalutare le materie umanistiche le quali
dovrebbero, per loro natura, ampliare le capacità critiche della gioventù, far
sviluppare la capacità di pensare e capire la realtà. Ciò non vuol dire
trascurare o svalorizzare quelle scientifiche ma riassestare il rapporto ora
troppo sbilanciato a loro favore. Si
dice che con le materie umanistiche non si trova lavoro. E dopo che faccio?
Troverò lavoro? Ma già questa domanda è un
tradimento della Scuola. La Scuola vuole che tu trascorra il tuo tempo libero
godendo ora della tua formazione e non pensando a quale lavoro dopo. Occorre
rivalutare le materie umanistiche che danno una visione globale e quindi
critica e intelligente del mondo. Chi ha
capacità di avere una visione globale, critica e intelligente sarà facilitato
anche a trovare lavoro. La Scuola non è finalizzata al lavoro ma alla
formazione e tuttavia la formazione di una persona appassionata e intelligente
è anche lo strumento migliore per il lavoro. Eppure, scrive Nappini, le
tendenze in atto sono quelle di vendere pacchetti di conoscenze per formare
rapidamente tecnici da immettere nel mercato del lavoro col pericolo di porre
in essere una vera e propria catastrofe culturale nel campo umanistico.
La finalizzazione della scuola al
lavoro, al mercato, e non all’uomo, è evidente nell’introduzione scolastica
dell’esperienza scuola lavoro. È
un’innovazione che prima di tutto mette in grande difficoltà sia gli studenti
che gli insegnanti. Gli studenti sono costretti a passare un periodo, mediamente
di quindici giorni, in un’azienda,
perdendo tempo di scuola, cioè libero dal lavoro, per un tempo di
lavoro. E vanno là dove si riesce a trovare, uno studente qua un altro là, in
modo del tutto disorganico rispetto all’attività scolastica, con la quale
l'attività di scuola lavoro non c’entra niente. E’ come inserire in un
organismo animale un corpo estraneo. Durante quel periodo gli studenti non
studiano, per se stessi, ma lavorano gratuitamente, non pagati, per altri, che
ne beneficiano. Una volta si chiamava sfruttamento, e per lo più di minori,
decretato per legge. E poi magari facessero l’esperienza tutti insieme! No, un
gruppo la fa un periodo un gruppo un altro, per cui i docenti si trovano in
tempi diversi classi con più alunni assenti, talvolta dimezzate, e non sanno
che fare, se spiegare o no, se fare verifiche o no. Mentre gli studenti perdono
spiegazioni e compiti col rischio poi di ritrovarsi indietro e in difficoltà.
Senza contare il tempo perso dagli insegnanti e i loro problemi nel trovare le
strutture, seguire i ragazzi, raccogliere le relazioni, leggerle, valutarle e
così via. Un compito oneroso e deviante che di nuovo sottrae tempo ed energie a
ciò che è essenziale. La Scuola oltre che un diritto è un privilegio, tanti
bambini del mondo non possono goderne, ma lo è perché è tempo di studio, libero
dal lavoro, non è tempo di lavoro. Il lavoro non può rubare alla Scuola il suo
tempo. L’esperienza scuola lavoro è un fallimento.
A questo proposito c’è da aggiungere
anche che il tempo di lavoro degli insegnanti è enormemente aumentato negli
ultimi anni, per fare riunioni di tutti i tipi di pomeriggio o svolgere mansioni, spesso burocratiche, a
casa, oltre che programmare, occuparsi di progetti, correggere i compiti e
mille altre cose. In particolare la figura del coordinatore è diventata
terribilmente oberata di impegni, senza che a questo aumento imponente di
lavoro sia stato corrisposto riconoscimento economico se non minimo.
Naturalmente così l’insegnante ha meno tempo per studiare e prepararsi le
lezioni e la qualità della scuola peggiora sempre di più.
Mentre sto scrivendo vengo a sapere che
la ministra Fedeli ha promosso per decreto una sperimentazione che prevede un
liceo di quattro anni con le ore annuali aumentate dalle attuali 900 fino a
1100-1220 occupando ovviamente parte delle vacanze con ore di scuola o di
esperienza scuola lavoro. Davvero non c’è mai fondo al peggio! Da un lato si
priva i ragazzi di un anno di scuola, di tempo libero per se stessi, di
arricchimento, per poterli immettere da sfruttati ancora prima e ancora più poveri culturalmente nel
mondo del lavoro, dall’altro si ruba loro il tempo, il tempo libero, il tempo
di vacanza. E così si ruba loro il diritto al riposo, al recupero, alla sosta,
a un tempo di indugio, di pausa, di silenzio, nel quale lavorare dentro e far
sedimentare e maturare i semi del proprio rapporto emotivo e mentale con la
vita. No, si deve riempire ogni vuoto, saturare tutto, produrre, produrre,
essere efficienti, chi resta indietro è perduto; il tempo libero, il tempo di
vacanza in fondo è tempo perso, secondo la mentalità efficientistica e
produttivistica del mercato e dei nostri politici, anche di sinistra, ormai
stregati dai mantra del neocapitalismo. Perché studiare un anno in più? Con la
cultura non si mangia, si fanno discorsi. Se ne può fare a meno. Meglio entrare
subito nel mercato, chè questa è una cosa seria, qui non si fanno chiacchiere.
E allora si ruba il tempo. Si ruba il tempo. Poche cose sono peggiori.
In conclusione dunque: oggi la
scuola non è la Scuola. È alienata, non è se stessa, ha perduto la propria
essenza. Nel rapporto conflittuale tra Scuola e potere il potere ha stravinto.
Ha fatto della Scuola il tempio del consenso alla sacralità del pensiero unico
neoliberista. La Scuola, il luogo dove si coltiva il cambiamento, è il triste
luogo della conservazione. La scuola reale è la scuola alienata. Scrive Nappini
alla fine che la prima vittima sociale di tutto questo è il
docente...l’altra vittima è la società italiana. E Naldini: quale può
essere il futuro di un paese che ha demolito il libero pensiero e la
possibilità di dire no?
Allora che fare? Resistere, resistere,
resistere. Ma come? Dove?
Nappini
afferma che la posta in gioco è il futuro della scuola italiana: scegliere
di seguire i modelli culturali nord americani o trovare una propria via? E
auspica una scuola pubblica che si faccia carico del problema della libertà
di pensiero. Ecco oggi il principale luogo di resistenza, quando il mondo è
stato ormai conquistato dal pensiero unico in una egemonia economica che è
diventata anche ideologica, è proprio la Scuola, e, per il compito universale
che è chiamata a svolgere, deve essere Scuola pubblica. Essa può rappresentare
l’autentico luogo di resistenza grazie alla sua natura profonda. Perché appunto
al di sotto dell’uso ideologico della scuola come strumento del potere batte
ancora il cuore dell’essenza della Scuola. L’insegnante è chiamato oggi a
ritrovare e custodire questa essenza, a svolgere il ruolo del paladino del
dissenso, del pensiero che sa dire no. Fare Scuola, cioè continuare a lavorare,
dedicare tempo ed energie per svolgere al meglio l’ora di lezione, per formare
cuori desideranti, amanti, appassionati, e menti libere, pensanti e critiche, è
la medicina più efficace per formare giovani di valore e costruire un futuro
aperto al cambiamento e a un mondo migliore e non al baratro verso cui ci
conduce il dominio attuale del capitale finanziario, ossia la potenza più
immensa e distruttiva che mai sia apparsa sulla faccia della terra e che, dopo
aver distrutto ogni valore che non sia il profitto ammantando di nichilismo il
nostro tempo, ci trascina a un mondo polare diviso tra una piccola minoranza di
padroni e una grande maggioranza di schiavi oppure verso il nulla di una catastrofe nucleare o
ecologica. La Scuola può essere ancora il principale luogo di resistenza al
nichilismo del nostro tempo. Come nota Nappini il senso del lavoro
dell’insegnante deve essere cercato nella qualità e nella dignità del suo agire
quotidiano. Il dovere del docente riposa nella sua coscienza...
Fare Scuola vuol dire fare cultura, sviluppare
l’amore per il sapere, cioè fare filosofia. Lo abbiamo visto, la Scuola, che ha
cura del desiderio di sapere, è, nella sua essenza, filosofica. L’economia, che
guarda la parte, non può capire al di là di se stessa, al di là della sua
parte. Solo la filosofia, che ha cura del Tutto, può capire il mondo. Solo la
filosofia può criticarlo. Solo la filosofia può cambiarlo.
Paolo Vannini
La scuola alienata
Il libro di Iacopo Nappini, Memoria
e confine. Viaggio nel mondo della scuola, con il quarto e ultimo capitolo
scritto da Francesca Naldini,
ricostruisce e analizza criticamente il processo storico con cui si è
arrivati allo stato attuale della scuola italiana. Nappini ripercorre con
grande lucidità e competenza le vicende della scuola nella storia d’Italia, per
le quali si potrebbe fare forse questa periodizzazione: scuola liberale, fascista, prima del ‘68,
dopo il ‘68 e dopo l’89 fino ad oggi. Finchè
Nappini, insieme a Naldini, approda a una denuncia radicale della
condizione attuale della scuola italiana. La sua lettura mi ha sollecitato a
buttar giù qualche considerazione su un tema così urgente e decisivo.
Cos’è la Scuola? La parola viene dal
greco Scholè, che significa tempo libero (dal lavoro e dalla guerra). E
indica quindi un tempo da dedicare a se stessi, al proprio arricchimento,
avendo come fine quella che i greci chiamavano paideia.
Paideia significa educazione ma
nel senso di una formazione umana completa e non professionale. La Scuola educa
a diventare un essere umano, prima che un fabbro o un falegname, dà quindi una
formazione globale, generale, non particolare e specialistica.
Paideia significa anche cultura,
ossia la Scuola è il tempo libero dedicato a coltivare se stessi, il
proprio corpo e il giardino della propria anima.
Ed essa è sì formazione, ma non
nel senso di imporre alla potenzialità ancora informe del ragazzo una forma
dall’esterno ma nel senso di aiutarlo a darsi da sé la propria forma
dall’interno, ad essere artefice di se stesso, a scolpire da sé la propria
statua.
Come ancora paideia è educazione ma non nel senso
di riempire dall’esterno la mente del ragazzo come un vaso vuoto, o in quello
di raddrizzare le viti storte, bensì in quello di aiutarlo a condurre fuori da
sé se stesso, le proprie idee e i propri valori, non quelli del docente, e nel
senso non di raddrizzare ma di rispettare ed amare le viti storte. Da questo
punto di vista ogni insegnante è una levatrice, come Socrate.
Paideia è quindi anche insegnamento, ma nel
senso che l’insegnante dev’essere capace non di suscitare indifferenza ma di
lasciare un segno nel ragazzo, nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita,
ossia deve saperlo affascinare accendendo in lui la fiamma del desiderio, l’amore
di sapere. E l’amore per il sapere è filosofia. Ogni vero insegnamento è
filosofia.
Paideia è infine anche istruzione,
cioè l’attività di fornire informazioni e nozioni, senza i quali si lavora sul
nulla, ma dove l’istruzione è solo una parte e non tutto e dove l’istruzione è
in funzione dell’educazione e non viceversa.
Dunque la Scuola è il tempo libero che
ha come scopo di aiutare la persona a diventare un essere umano, ad essere se
stessa nel modo migliore. Quello che i greci chiamavano aretè, virtù. Ma
cosa significa tempo libero dedicato a diventare un essere umano, ad
essere uomo nel modo migliore? Cos’è un essere
umano?
Da un lato, per Aristotele un essere
umano è un animale dotato di ragione: ciò che è proprio dell’uomo e lo
distingue da ogni altro essere è la razionalità, il pensiero. Ma il pensiero è
critica, capacità di distinguere. Dunque la Scuola è tempo libero per aiutare
la persona a sviluppare una testa pensante e critica.
E dall’altro lato, per Platone, si
impara solo attraverso l’amore. In questo senso la Scuola è il tempo libero
dedicato ad accendere il desiderio, che è ciò che accende la vita, quindi tempo
dedicato ad accendere la vita, a suscitare
la passione, l’amore di sapere, di nuovo filosofia. Ogni vera
scuola è filosofia, la quale anche per Aristotele nasce di fronte a qualcosa
che meraviglia e fa sorgere il desiderio, il desiderio di sapere. Qui lo scopo
è formare cuori desideranti, appassionati. Il segreto della scuola è l’amore.
Deve formare degli amanti. La scuola deve occuparsi solo dell’amore. Il suo
compito è accendere la vita.
Ecco dunque in sintesi, raccogliendo
le cose dette fin qui, la risposta alla domanda cos’ è la scuola? La
scuola è il tempo libero dedicato a formare persone libere che hanno cuori
desideranti e appassionati uniti a teste pensanti e critiche. Questo è tutto.
E se questo è ciò che la Scuola è,
questa è l’essenza della scuola. Per indicare la Scuola fedele alla sua
essenza, sto usando la parola con la lettera maiuscola. La Scuola, quella con
la lettera maiuscola, è la vera Scuola, la Scuola in quanto essa è se stessa, è
ciò che è. Ma ciò significa che l’essenza della scuola è intimamente
conflittuale rispetto al potere (politico e quindi economico). Giacché infatti
essa è filosofia, è l’attività di mettere in dubbio ciò che è dato per
scontato, e dunque la realtà esistente. La Scuola è il luogo per eccellenza
dove si ha cura delle condizioni del dissenso. La sua essenza è essere palestra
di persone che con passione pensano e criticano il mondo. E per questo lo
migliorano. La scuola è il motore del cambiamento e del progresso. E’ il luogo
dove si gettano i fondamenti per imparare a dire di no. È per natura dinamica e
destabilizzante laddove il potere è statico e conservativo.
Ma, se questa è l’essenza della Scuola,
cos’è la scuola oggi? Come si nota, occorre subito passare alla lettera
minuscola. La Scuola è la scuola ideale, la scuola come dovrebbe essere, la
scuola è la scuola reale, la scuola com’è. E La scuola reale oggi è
forse fedele alla propria essenza, è quello che è? Ecco, niente affatto, anzi
essa è esattamente l’opposto, non è più se stessa, è diventata altro dalla sua
essenza, si è alienata. E non è più indipendente dal potere e sguardo critico
su di esso ma strumento del potere, totalmente asservito ad esso. Com’è
avvenuto questo ribaltamento, frutto ovviamente di un lungo processo di
strumentalizzazione della scuola da parte del potere, com’è successo tutto ciò?
Per limitare il discorso a tempi non
troppo lontani, dopo che il ‘68, a partire da don Milani il quale, scrive
Nappini, vedeva la scuola come il luogo ove si formava il senso critico e il
singolo imparava a reagire ai condizionamenti e aveva denunciato il
carattere classista, punitivo e selettivo della scuola italiana, funzionale
all’economia capitalistica, assistiamo negli anni ‘80 (prendiamo l’89 come data
simbolo) alla poderosa controffensiva del capitalismo nella sua forma più
radicale e aggressiva, il neoliberismo, che non solo intende
riconquistare le posizioni perdute negli anni ‘60 e ‘70 ma vuole anche
stravincere abbattendo tutti gli ostacoli che pongono un limite al
raggiungimento del suo scopo, cioè il profitto privato. Il capitalismo è
volontà illimitata di profitto privato. Il capitalismo è senza limiti.
Ma non avere più limiti significa che il
capitalismo aspira a diventare tutto, mediante il processo che ha il nome di globalizzazione
ed indica l’estensione del capitalismo al mondo intero. Ossia il
capitalismo, da capitalismo limitato, aspira a diventare capitalismo globale,
cioè assoluto. Il che significa annientare appunto ogni limite, e i limiti maggiori rimasti, dopo aver sconfitto quello principale,
il comunismo, sono la politica, cioè lo stato, la religione, cioè la chiesa, e
la cultura, cioè la scuola. Annientarli non significa fare in modo che non
esistano più ma stravolgere la loro essenza per piegarli e deviarli verso un
altro fine. La politica, cioè l’attività di promuovere il bene comune, diventa
quella di realizzare il bene privato dei grandi poteri economici e finanziari,
la religione, cioè la fede in Dio, diventa fede in quel nuovo Dio che è il
denaro che, come scrive Nappini, da mezzo diviene scopo ultimo
dell’esistenza, la cultura, cioè l’attività di formare persone libere, pensanti e critiche, diventa
l’attività di preparare persone acritiche adatte al mercato, a creare, come
nota Naldini una futura massa di lavoratori privi di autostima, pronti a
inchinarsi di fronte al datore di lavoro.
Per quanto riguarda la scuola, dunque,
assistiamo alla realizzazione del poderoso progetto di progressiva distruzione
capitalistica della Scuola snaturandone l’essenza con riforme nelle quali, osserva
Nappini, il parere degli insegnanti di solito non è preso in considerazione
dalla politica che riforma la materia dall’alto. Il momento decisivo con
cui comincia questo processo è la riforma Berlinguer, proseguito poi da
tutte le riforme e governi successivi, di destra e di sinistra, ormai d’accordo
nella celebrazione del capitalismo come unico mondo possibile. Coerentemente
con quel grandioso processo con cui la sinistra ha fatto propria l’intera
ideologia della destra. Per cui, se ha un senso dire che è superata oggi
l’opposizione tra destra e sinistra, è solo perché la sinistra è diventata
destra (per quanto continui a chiamarsi sinistra). Ormai esiste solo la destra,
in quanto ciò che si chiama sinistra e ciò che si chiama destra crescono su un
terreno comune, la convinzione che il capitalismo sia intrascendibile e anche, nonostante
l’evidenza contraria, il migliore dei mondi possibili.
Il marchio di fabbrica di questo immane
processo di snaturamento della scuola, alienandola dalla propria essenza, è la
concezione, che s’impone con la riforma Berlinguer, della scuola come azienda.
A questo punto tutto è già stato fatto e ciò che viene dopo non è altro che una
logica esecuzione e conseguenza di questa premessa.
Si tratta di capire che qui avviene un
plateale rovesciamento di fine. La scuola azienda ha un fine diverso dalla
Scuola. Il fine della Scuola, lo abbiamo visto, è il bene di ciascun individuo
come aretè, virtù, cioè piena
realizzazione di ognuno in quanto persona desiderante e pensante, quindi
il bene di tutti. La Scuola è nella sua
essenza una realtà etica, ha per fine il
bene comune. Ma lo scopo dell’azienda è invece il profitto, o comunque la
produzione, in ogni caso il bene dell’azienda stessa. Entrando nella logica
dell’azienda dunque si entra automaticamente in una logica privata perché
un’azienda cerca di fare non il bene comune ma il proprio bene in concorrenza
con le altre aziende. Così si attribuisce alla scuola pubblica una logica
privata. Anche la scuola pubblica
diventa una copia di quella privata. A questo punto ogni scuola è
privata. Ma è ovvio che la scuola privata, l’originale, è più adatta di quella
pubblica che la imita, la copia, a incarnare questa logica e dunque è ovvio che
si tenda a favorire la scuola privata, foraggiandola di finanziamenti, e si
svantaggi quella pubblica, togliendole fondi (e giustificando i tagli con la
crisi economica, osserva Naldini). La scuola, nella logica dell’azienda, è
destinata a sbilanciarsi sempre più verso quella privata.
In questo modo la scuola diventa
un’azienda che vende un prodotto, chiamato formazione, comprato da studenti che
dunque sono clienti, consumatori di formazione, la quale pertanto diventa
merce, io te la vendo e tu me la paghi. Scrive Nappini che le nuove
politiche neoliberali...hanno imposto...l’idea che sia utile passare a logiche
di mercato e considerare i discenti e le loro famiglie...come consumatori di
formazione. È quella che egli chiama
la logica dello studente cliente riportando Max Weber quando scrive che dell’insegnante
che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le
sue nozioni per il denaro di mio padre come l’erbivendolo vende i cavoli a mia
madre. Così la filosofia del capitalismo diventa la filosofia della scuola
e la cultura subisce totalmente la logica dell’economia. L’economia sottomette
a sé la cultura. E la scuola diventa ideologica, apparato ideologico di
stato, come la chiamava Althusser, strumento di trasmissione dell’unica
ideologia rimasta, l’ideologia neoliberista.
Naturalmente per svolgere questa
funzione la scuola ha bisogno di essere seducente perché deve vincere la
competizione strappando clienti alle altre scuole, e così cerca di
imbellettarsi per presentarsi con l’aspetto migliore possibile, per fare colpo,
mostrandosi come una scuola dinamica che
fa mille attività, iniziative e progetti. Non importa se molti di questi sono
fumo e altri sottraggono prezioso tempo di studio, importante è risultare
attraenti, a costo di apparire più belli di quello che si è. È quella che
chiamerei la scuola prostituta. Così la scuola, che dovrebbe
essere custode di verità, diventa fonte di menzogna e fa passare il messaggio
che conta l’apparire più che l’essere. Del resto, se si fanno tanti progetti e
ci si mostra scuola all’avanguardia, si possono ricevere più soldi e il denaro
val bene qualche piccola bugia. Nota
Naldini che la scuola che sa essere più
attraente è quella che riceve più soldi e quindi offre maggiori opportunità,
con inevitabile divario tra scuole di serie A, B e C. E Nappini constata che si agisce secondo il concetto
di portare la concorrenza dentro il sistema scolastico e di far competere fra
loro le scuole anche nel senso di determinarne il successo o la chiusura. Perchè
la competizione fra scuole...in questa prospettiva darwiniana è una garanzia di
successo dell’istituto più forte.
Ma allora è evidente che il fine della
scuola non è più la formazione di persone libere, con un cuore desiderante e
appassionato e una mente pensante e critica, ma la preparazione al mondo del
lavoro. La scuola non è più indipendente, è dipendente dall’economia. Non è un
fine in sé, deve servire il lavoro. Così la scuola diventa tutta professionale,
anche i licei, perché ha fatto propria una logica professionale. Il suo fine
non è più accendere il desiderio di sapere ma imparare abilità e competenze che
servono al mondo del lavoro. Il fine non è più il bene (comune) ma l’utile
(privato). La scuola non è più una realtà etica ma economica. E il mondo del
lavoro del quale la scuola diventa semplice propedeutica non è il lavoro
libero, sicuro e gratificante di una società giusta, ma quello costretto,
insicuro e alienante dell'odierna società ingiusta. E' quello del capitalismo
neoliberistico globale, il mercato nel quale lo studente è destinato a
inserirsi come sfruttato, emarginato, precario, schiavo, secondo quella forma
odierna di schiavitù che è il lavoro precario senza diritti. Che la scuola
abbia per fine il lavoro è il trionfo del mercato e delle grandi forze
economiche e finanziarie. Il loro progetto è riuscito.
Questo spostamento gigantesco, nella
scuola, dalla cultura al mercato, si mostra nel modo più plateale nel
linguaggio. Il linguaggio della Scuola è scomparso, sostituito da quello
dell’azienda. Nappini lo definisce il predominio del linguaggio mercantile
nelle scuole. E così si parla di
profitto, capitale umano, risorse umane, debiti, crediti, domanda e offerta
formativa, investimenti formativi,
preside manager, anzi ormai nemmeno preside, parola che almeno conserva
un po' di calore (colui che siede avanti e accanto) ma il più algido dirigente, come i dirigenti
d’azienda che dirigono, cioè dicono loro in che direzione e verso quale meta si
deve andare, dotati, come scrive Naldini, di pieni poteri di direzione, coordinamento
e valorizzazione delle risorse umane.
Ma il linguaggio non è poco, è tanto, è
tutto. Il linguaggio esprime concetti, ideali, valori, visioni del mondo. Che
la scuola parli il linguaggio dell’economia significa che ha fatto propria l’ideologia dominante del
capitalismo neoliberista, ha introiettato le sue idee e i suoi valori:
individualismo, atomismo, produttività, performance, competizione, competenza,
efficienza, principio di prestazione, mito dell’affermazione individuale,
narcisismo. Come osserva Nappini: il denaro, il successo individuale,
l’aspetto esteriore e l’ostentazione della ricchezza sono...misura di tutti i
tipi di relazione...e sola prospettiva per gli umani rimane il successo, la
fama e l’arricchimento personale. E si vede il senso della vita come un
calcolo...dei costi sostenuti, profitti realizzati e piaceri ottenuti. E
ancora aggiunge che l’egemonia culturale è passata saldamente in mano al
pensiero unico neo-liberista. Così l’allievo smette di essere un essere
umano e diventa una macchina, come un computer da riempire di file, che deve
realizzare prestazioni adeguate.
E
tuttavia questi valori sono espressione di una filosofia. Anche l’ideologia ha
alle spalle una filosofia e in questo caso si tratta di una grande filosofia.
La sua base è l’equazione economia natura. L’economia, che oggi ha assunto la
forma dominante del capitalismo finanziario, è lo sviluppo più coerente della
natura umana, che è egoismo e volontà di potenza. Difatti in economia, come in
natura, vale un’unica legge che è la legge del più forte, dove i deboli
soccombono. L’uomo è un lupo e la vita è una lotta, di tutti contro tutti, è la
giungla dove vale la legge del più forte. È quella che Nappini chiama competizione
darwiniana. Dunque la giungla del mercato è naturale espressione della
giungla della vita. Il mercato è naturale. Così se ne cancella la sua genesi
storica; se il mercato e l’economia capitalistica sono nati nella storia
infatti, come tutto ciò che nasce, sono destinati a morire, se invece sono naturali,
come il fuoco che scalda, sono destinati ad esistere sempre. In quanto naturale
il capitalismo viene eternizzato. È questa la filosofia dell’attuale
capitalismo finanziario, ma appunto ha dietro di sé una grande tradizione
filosofica, il pensiero di Callicle, Hobbes,
Locke, Smith, Nietzsche. Non
sarebbe possibile la speculazione finanziaria senza la filosofia. È sempre la
filosofia che decide. Così la giungla della natura, che è la giungla del
mercato, diventa anche la giungla della scuola e la filosofia del capitalismo
finanziario diventa anche la filosofia della scuola.
In qualcosa questa concezione dice il
vero: il mercato senza limiti è esattamente la giungla, lo stato di natura di
Hobbes, dove vige solo la legge del più forte ed è l'inferno degli ultimi. Se
poi qualcuno crede ancora davvero che una mano invisibile conduca la giungla
degli egoismi particolari al bene generale non resta che congratularsi di tanta
innocente e stupefacente ingenuità. Ma basterebbe dar voce al numero
incalcolabile dei morti e gli affamati del nostro tempo per smentirlo
drasticamente.
Così ai valori propri della Scuola, cooperazione, solidarietà, relazione,
incontro, valorizzazione di tutti, si sostituiscono quelli del mercato,
produttività, competizione, conflitto e così
via, appunto perché la vita è una gara e una dura lotta. Guai a chi resta
indietro. Si entra così, scrive Nappini, in una dimensione di dissoluzione
della collettività e della socialità perché viviamo nel tempo
dell’egemonia del pensiero neoliberale per cui la prospettiva
individualistica...si è trasformata nell’unico orizzonte di senso.
Questa filosofia deve entrare anche
nelle teste degli insegnanti. La cosiddetta buona scuola (che si
autoelogia da sola e, in quanto buona, non può essere criticata perchè se è
buona qualsiasi critica ad essa non può essere che cattiva) istituisce il bonus
di merito per loro. Non sia mai che gli insegnanti, umiliati e offesi, che
hanno gli stipendi più bassi d’Europa e, scrive Nappini, in un mondo in cui
contano le nude cifre dell’economia...sono relegati in basso nella scala della
gerarchia sociale, debbano avere un adeguamento generalizzato di stipendio
e una rivalutazione del loro ruolo e della loro considerazione sociale! Certo
che no, solo i bravi, quelli che lo meritano. Si manifesta qui un atteggiamento
di fondo di sfiducia nei confronti degli insegnanti, una diffidenza che porta a
pensare, spesso a dare per scontato, che non facciano nulla, lavorino poco,
figuriamoci, appena 18 ore la settimana, e che solo i pochi che meritano
abbiano diritto a un premio anche economico.
In questo modo si dividono gli
insegnanti, si insinua appunto tra di loro una logica di competizione, invidia,
risentimento. E così si avvelena la scuola. Certo docenti divisi, che litigano
tra loro, si controllano meglio, gli si fa fare più facilmente quello che si
vuole. Divide et impera, ovviamente. Pertanto la scuola viene divisa tra
insegnanti di serie A e di serie B, togliendo autorità, anche in classe davanti
agli studenti, a quelli di serie B che, si penserà, evidentemente sono meno
bravi.
In realtà non è vero nemmeno questo
perché chiediamoci: in che modo si scelgono gli insegnanti che meritano? Qui
tocchiamo il punto forse più centrale e più doloroso, perché si ha veramente la
misura di come la Scuola sia stata snaturata. L’essenza di questo lavoro,
l’insegnamento, è l’ora di lezione, secondo la felice espressione usata
dal bel libro di Massimo Recalcati. L’ora di lezione è il tempo in cui
l’insegnante svolge il suo lavoro di accendere il desiderio, suscitare l’amore, il pensiero, la critica,
comunicare il messaggio che è possibile vivere una vita piena di senso.
Qui si vede il merito dell’insegnante.
Ma per ottenere questo deve fare un grande lavoro, di studio a casa, di
preparazione delle lezioni, di riflessione su cosa dire, come dirlo, e cosa non
dire, e in che modo interessare, toccare, infiammare gli studenti, e come
rivivere lui stesso in modo nuovo, rivitalizzando ogni volta, ciò che ha
spiegato già mille volte, e come capire i messaggi che vengono dai ragazzi, le
loro difficoltà, uno per uno, curando la relazione, più importante dei
contenuti. Questo è il lavoro che merita. Questo è, nella scuola, tutto. Ma per
far bene questo l’insegnante ha bisogno di tanto tempo, tempo libero a casa
prima di tutto da dedicare allo studio e alla preparazione del suo lavoro.
Oltre che di classi meno numerose, Naldini si chiede come è possibile
garantire il diritto ad apprendere e la crescita educativa di tutti gli alunni
in classi pollaio dove sono ammassati 27-30 studenti. Sarebbe facile,
dateci classi di 10-12 studenti e d’un colpo la buona scuola sarà fatta.
Purtroppo però tutto questo lavoro, che
è l’essenziale, è proprio quello che non si vede, l'essenziale, si sa, è
invisibile agli occhi, e allora il bonus
di merito non può premiarlo, cioè il bonus di merito non può premiare il lavoro
che merita. Pertanto viene assegnato a chi fa altro, iniziative, progetti,
attività extracurriculari aggiuntivi, non essenziali, per i quali si sottrae
tempo a ciò che è essenziale. E così spesso si premia non il merito ma il
demerito.
E chi lo attribuisce il bonus di merito?
C’è un comitato di valutazione di docenti, che, se dovessero decidere loro, si
troverebbero quasi nella posizione di moderni Kapò della scuola, arbitri dello
stipendio e della reputazione dei colleghi; in realtà però non contano nulla
essendo la decisione finale esclusivamente nelle mani del Dirigente che premia
spesso appunto chi non merita, in modo assai oscuro. Naldini scrive che i
Dirigenti Scolastici devono valutare gli insegnanti con un comitato a loro
totalmente asservito. I premiati ricevono soldi pubblici in più senza che
si sappia pubblicamente chi sono, per quale motivo li abbiano presi e perché
non li abbiano presi gli altri. Si sa solo che ci sono criteri di attribuzione,
e quali, ma sono molto vaghi e lasciano grande spazio all’arbitrio, mentre il
resto è avvolto dall’omertà, alla faccia della trasparenza della pubblica
amministrazione. Naldini è lapidaria: Trasparenza è parola estranea a molti
Dirigenti scolastici...
Che il Dirigente abbia tutti questi
poteri, come anche la chiamata diretta dei docenti, con cui, scrive ancora
Naldini, ogni possibile opposizione dei docenti neo-assunti o precari è
stata definitivamente stroncata, non stupisce. La concentrazione di potere
nelle mani del dirigente rende la scuola meno democratica. La democrazia
è il potere che sale dal basso, una scuola in cui il potere è accentrato e
scende dall’alto è meno democratica e più autoritaria. Lo stesso Nappini parla
della trasformazione della scuola pubblica in senso tanto centralizzato
quanto autoritario. Ma, dicevo, non stupisce. La democrazia è uno dei
limiti maggiori di cui il capitalismo globale deve sbarazzarsi giacchè il fine
della democrazia ossia il bene comune è diverso da quello del capitalismo cioè
il profitto privato, pertanto questi ha bisogno di figure, i Dirigenti, nella
scuola e nello stato, che eseguano fedelmente i suoi ordini per realizzare i
suoi scopi. In questo senso non solo la cultura e la scuola ma anche la
politica e lo stato oggi sono morti perché hanno perso la loro anima per
diventare servi dei diktat del mercato e della finanza. Hanno venduto l’anima
al diavolo, e il diavolo è il capitalismo globale. La scuola è serva della politica
e la politica è serva dell’economia. Oggi l’economia è tutto, la politica, e la
Scuola, sono nulla.
Naturalmente togliere tempo e
riconoscimento a ciò che nella scuola è essenziale e rivolgere tempo e riconoscimento a ciò che è inessenziale, fa
scadere la qualità della scuola. L’aspetto più inquietante è che oggi l’ora di
lezione, cioè l’essenziale, è ai margini, mentre mille altre cose,
l’inessenziale, sono al centro. Tutto è rovesciato. La pietanza diventa
contorno e il contorno pietanza. Ma, di nuovo, anche questo serve. Serve al
Capitale per screditare la scuola pubblica e quindi valorizzare quella privata.
Scrive Naldini che il fine...è distruggere la scuola pubblica, o meglio
eliminare cultura ed istruzione, perché il mondo dell’economia e della finanza
nonché i poteri militari richiedono popoli ignoranti.
Il pubblico è uno dei grandi
limiti che il Capitale deve abbattere riducendolo a privato per poter scatenare
indisturbato, senza limiti, la propria brama di profitto. Da qui la tendenza a
privatizzare tutto, col neoliberismo, e pertanto anche la scuola. Certo la
scuola è l’istituzione pubblica più resistente, per questo il lavoro ai fianchi
dev’essere lento e profondo, penetrare nella testa della gente, ma la direzione
è quella di sostituire la scuola privata a quella pubblica come scuola di
qualità, alla maniera del mondo anglosassone, grande padre del neoliberismo, ma
come avviene in parte anche in Italia dove le università eccellenti sono quelle
private, per i ricchi. E' ovvio, se la logica è una logica di mercato, più
spendi più compri una merce migliore.
Eppure, come sappiamo, la Scuola è prima
di tutto un diritto, un diritto universale che una scuola privata, che ha
natura particolare, non può soddisfare e per la quale sarebbe necessaria un’autentica
scuola pubblica, a vocazione appunto universale. Mentre, scrive ancora Nappini,
nei paesi di cultura anglosassone come gli Stati Uniti e il Regno Unito
l’istruzione di buon livello è un bene che si può comprare e non è quindi un
diritto. Negli Stati Uniti la Costituzione non riconosce il diritto allo
studio, la scuola pubblica è un servizio sociale per i poveri che non possono
permettersi di pagare le scuole normali. E Nappini denuncia anche in modo
implacabile i tentativi, già realtà altrove, di introdurre anche nella scuola
italiana le aziende private, la
pubblicità, il marketing, il branding dell’istruzione, insomma
l’apertura della scuola al capitale privato che la vede come straordinaria
occasione di lucro per saziare la propria comunque insaziabile voracità.
Coerente con tutto questo processo è
anche la malattia, di cui oggi la scuola
soffre gravemente, dello scientismo.
È evidente, il capitalismo globale, il massimo potere della terra, può
esercitare la sua forza grazie alla potenza della scienza e della tecnica.
Scienza e tecnica hanno per fine il dominio
ed è grazie alla scienza e alla tecnica che il capitalismo domina il
mondo. Ma il dominio ha bisogno di specializzazione.
Per dominare qualcosa la devo conoscere nei minimi dettagli e per conoscerla
nei minimi dettagli devo possedere un sapere analitico fortemente
specializzato. In questo modo s’impone l’ideologia scientista che il vero
sapere è quello che serve e quello che serve è quello che ci permette di
dominare e quello che ci permette di dominare è il sapere altamente
specializzato, cioè tecnico scientifico, che pertanto è l’unico sapere utile.
Espressione evidente di questa visione
neoliberista e scientista è la cosiddetta scuola delle tre i, inglese,
impresa, informatica. Beh! mettere al centro della scuola l’impresa è
un’evidente, spudorata ammissione che la
scuola deve servire al mercato, all’organizzazione capitalistica del lavoro.
Mettere al centro l’informatica serve a integrarsi nell’attuale mondo
globalizzato ma non certo a formarsene una visione complessiva e a criticarlo.
E poi l’inglese.
Nessuno nega ovviamente che sia oggi
importante conoscere l’inglese, che sia segno di un nostro provincialismo
culturale italiano conoscerlo troppo poco e che non ci si debba chiudere in
modo nazionalistico ad altre lingue e culture e in particolare alla lingua e
alla cultura più diffuse del mondo. Ma occorre anche stabilire dei limiti. È
giusto usare una parola inglese quando non c’è una parola italiana per
esprimere o per esprimere al meglio un concetto, ma non lo è quando esiste già
una parola italiana. Perché, se sostituiamo le nostre parole con parole
inglesi, permettiamo che la nostra lingua sia colonizzata da un’altra.
Svendiamo la nostra lingua e la nostra cultura, così dense di tradizione e di storia, come fossero
inadeguate e inferiori. Favoriamo il processo con cui il capitalismo
finanziario, che parla inglese, diventa globale e colonizza il mondo. L’inglese
che ci sta invadendo non è quello della cultura, non è l’inglese di Shakespeare,
ma quello dell’economia, è l’inglese della finanza: governance, spread, Jobs
act e così via. Il dilagare dell’inglese è oggi uno dei segni più evidenti
della colonizzazione del mondo da parte del capitale finanziario.
Per non parlare del progetto CLIL. Ci
può essere qualcosa di più insensato che far insegnare in lingua inglese
docenti di altre materie, che conoscono la lingua meno dei propri studenti? Se
si parla tanto di competenze, non dovrebbe insegnare in inglese solo chi ha la
competenza per farlo? Non basta fare un rapido corso e prendere in fretta un
diploma per parlare una lingua, e poi
l’insegnamento Clil, anche dove viene messo in atto, si riduce alla
preparazione di un’unità didattica di mezza paginetta in un intero anno, che
però costa al docente una penosa fatica. Ma l’argomento non merita nemmeno di
sprecarci tempo, tanto è evidente l’assurdità. Per fortuna è un’esperienza che
è già fallita sul campo, alla prova dei fatti, e non ci voleva molto per
prevedere questo risultato. In conclusione quindi restiamo sì aperti
all’inglese ma difendiamo anche la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra
storia, la nostra identità, affinché la globalizzazione sia un arricchimento
nell’unità tollerante delle differenze e non l’impoverimento di un’unità
intollerante che le cancella. Se non c’è la parola italiana, sia benvenuta
anche quella inglese, però, se la parola italiana c’è, allora preferiamo lei.
Ma, tornando allo scientismo, è chiaro
che, se il sapere dello scientismo è analitico, non è sintetico. Se è particolare non è globale. Se vede solo
la parte non vede il tutto, e se non vede il tutto non capisce davvero. Dunque
oggi la scuola vuole formare persone abili e competenti a risolvere singoli
problemi, abilità e competenze da valorizzare poi nel mondo del lavoro, ma
incapaci di una visione globale e quindi di vera comprensione e di
critica. Persone competenti ma stupide, che sanno calcolare ma non pensare,
l’ideale per gli scopi del capitale. La pedagogia delle competenze, oggi
dilagante nella scuola, proprio per la sua finalizzazione al mondo del lavoro,
cioè al mercato, è conservatrice, serve a inserirsi nel mondo senza criticarlo
e quindi a conservarlo com’è.
A questo è finalizzato il dominio di
pratiche analitico scientifiche nella scuola. Esempio l’abuso delle griglie di
valutazione, che spezzettano una prova, scritta o orale, dando un singolo voto
a ogni suo aspetto e poi facendo la somma. Il che è come fare l’anatomia di una
persona viva: ovviamente la si uccide. Una prova, come un’interrogazione o un
compito, è una totalità organica, che palpita di vita, e allora la valutazione
dev’essere una valutazione sintetica, globale, nella quale conta anche
l’intuizione dell’insegnante, altrimenti si perde la prova perché, tagliandola
la si uccide e la si fa diventare, da cosa viva, cosa morta. Difatti la maggior
parte degli insegnanti prima dà un voto globale dentro di sé alla prova e poi
lo aggiusta dividendolo in giudizi parziali. Il tutto è qualcosa di più della
somma delle parti, questo principio semplice della Gestalt è completamente
dimenticato dai nostri pedagogisti malati di scientismo. Le griglie di
valutazione sono una peste della scuola, la tendenza diabolica a voler
quantificare e misurare tutto, anche ciò che non si può.
E così l’uso di somministrare
questionari, test e quiz di tutti i tipi in modo da permettere una
valutazione più oggettiva, per fare come gli anglosassoni, perché quello che
conta non è se lo studente ha sviluppato un proprio interesse ma se sa la
nozione e sa fare la crocetta giusta. Se poi azzecca tirando a caso pazienza.
Conta la quantità di risposte giuste. Conta la quantità. Così quello studente
lo possiamo numerare. Naldini parla di una scuola che, con gli INVALSI ed i quizzoni obbliga i giovani al nozionismo.
Oppure la cosiddetta Unità di
Apprendimento, della quale nessuno ha capito bene cosa sia. Ciò che si
capisce è che si tratta di impostare in ogni materia un lavoro su un argomento
specifico che comprenda una somma di unità didattiche da svolgere durante l’anno.
Ma il compito della scuola, prima dell’università, è quello di fornire allo
studente le strutture fondamentali di ogni materia. E una struttura è una
totalità, come la struttura che sorregge un edificio. Se si fa per un certo
tempo un lavoro specifico si compromette la possibilità di lavorare per formare
un quadro generale. La scuola che precede l’università dev’essere sintetica, a
vari livelli di difficoltà nei diversi livelli di scuola. L’università poi sarà
analitica. L’Unità di Apprendimento che, in quanto lavoro analitico e
specifico, ostacola, impoverisce o addirittura compromette un lavoro volto
all’apprendimento di una visione globale, della struttura di una materia,
lavora a formare menti che vedono solo la parte e non il tutto, e chi non vede
il tutto non può né capirlo né criticarlo. Ad avere cura dell’intero è la
filosofia. Se l’essenza della Scuola è filosofica, la scuola reale è
antifilosofica.
Pertanto al dominio attuale dello
scientismo occorre contrapporre una rivalutazione delle materie umanistiche,
volte a formare l’uomo. Naldini evidenzia la tendenza a togliere ore di
insegnamento a discipline che promuovono lo spirito critico e la libera
riflessione come Filosofia, Storia, Diritto, materie umanistiche. E Nappini
osserva un processo che tende a svalutare le materie umanistiche le quali
dovrebbero, per loro natura, ampliare le capacità critiche della gioventù, far
sviluppare la capacità di pensare e capire la realtà. Ciò non vuol dire
trascurare o svalorizzare quelle scientifiche ma riassestare il rapporto ora
troppo sbilanciato a loro favore. Si
dice che con le materie umanistiche non si trova lavoro. E dopo che faccio?
Troverò lavoro? Ma già questa domanda è un
tradimento della Scuola. La Scuola vuole che tu trascorra il tuo tempo libero
godendo ora della tua formazione e non pensando a quale lavoro dopo. Occorre
rivalutare le materie umanistiche che danno una visione globale e quindi
critica e intelligente del mondo. Chi ha
capacità di avere una visione globale, critica e intelligente sarà facilitato
anche a trovare lavoro. La Scuola non è finalizzata al lavoro ma alla
formazione e tuttavia la formazione di una persona appassionata e intelligente
è anche lo strumento migliore per il lavoro. Eppure, scrive Nappini, le
tendenze in atto sono quelle di vendere pacchetti di conoscenze per formare
rapidamente tecnici da immettere nel mercato del lavoro col pericolo di porre
in essere una vera e propria catastrofe culturale nel campo umanistico.
La finalizzazione della scuola al
lavoro, al mercato, e non all’uomo, è evidente nell’introduzione scolastica
dell’esperienza scuola lavoro. È
un’innovazione che prima di tutto mette in grande difficoltà sia gli studenti
che gli insegnanti. Gli studenti sono costretti a passare un periodo, mediamente
di quindici giorni, in un’azienda,
perdendo tempo di scuola, cioè libero dal lavoro, per un tempo di
lavoro. E vanno là dove si riesce a trovare, uno studente qua un altro là, in
modo del tutto disorganico rispetto all’attività scolastica, con la quale
l'attività di scuola lavoro non c’entra niente. E’ come inserire in un
organismo animale un corpo estraneo. Durante quel periodo gli studenti non
studiano, per se stessi, ma lavorano gratuitamente, non pagati, per altri, che
ne beneficiano. Una volta si chiamava sfruttamento, e per lo più di minori,
decretato per legge. E poi magari facessero l’esperienza tutti insieme! No, un
gruppo la fa un periodo un gruppo un altro, per cui i docenti si trovano in
tempi diversi classi con più alunni assenti, talvolta dimezzate, e non sanno
che fare, se spiegare o no, se fare verifiche o no. Mentre gli studenti perdono
spiegazioni e compiti col rischio poi di ritrovarsi indietro e in difficoltà.
Senza contare il tempo perso dagli insegnanti e i loro problemi nel trovare le
strutture, seguire i ragazzi, raccogliere le relazioni, leggerle, valutarle e
così via. Un compito oneroso e deviante che di nuovo sottrae tempo ed energie a
ciò che è essenziale. La Scuola oltre che un diritto è un privilegio, tanti
bambini del mondo non possono goderne, ma lo è perché è tempo di studio, libero
dal lavoro, non è tempo di lavoro. Il lavoro non può rubare alla Scuola il suo
tempo. L’esperienza scuola lavoro è un fallimento.
A questo proposito c’è da aggiungere
anche che il tempo di lavoro degli insegnanti è enormemente aumentato negli
ultimi anni, per fare riunioni di tutti i tipi di pomeriggio o svolgere mansioni, spesso burocratiche, a
casa, oltre che programmare, occuparsi di progetti, correggere i compiti e
mille altre cose. In particolare la figura del coordinatore è diventata
terribilmente oberata di impegni, senza che a questo aumento imponente di
lavoro sia stato corrisposto riconoscimento economico se non minimo.
Naturalmente così l’insegnante ha meno tempo per studiare e prepararsi le
lezioni e la qualità della scuola peggiora sempre di più.
Mentre sto scrivendo vengo a sapere che
la ministra Fedeli ha promosso per decreto una sperimentazione che prevede un
liceo di quattro anni con le ore annuali aumentate dalle attuali 900 fino a
1100-1220 occupando ovviamente parte delle vacanze con ore di scuola o di
esperienza scuola lavoro. Davvero non c’è mai fondo al peggio! Da un lato si
priva i ragazzi di un anno di scuola, di tempo libero per se stessi, di
arricchimento, per poterli immettere da sfruttati ancora prima e ancora più poveri culturalmente nel
mondo del lavoro, dall’altro si ruba loro il tempo, il tempo libero, il tempo
di vacanza. E così si ruba loro il diritto al riposo, al recupero, alla sosta,
a un tempo di indugio, di pausa, di silenzio, nel quale lavorare dentro e far
sedimentare e maturare i semi del proprio rapporto emotivo e mentale con la
vita. No, si deve riempire ogni vuoto, saturare tutto, produrre, produrre,
essere efficienti, chi resta indietro è perduto; il tempo libero, il tempo di
vacanza in fondo è tempo perso, secondo la mentalità efficientistica e
produttivistica del mercato e dei nostri politici, anche di sinistra, ormai
stregati dai mantra del neocapitalismo. Perché studiare un anno in più? Con la
cultura non si mangia, si fanno discorsi. Se ne può fare a meno. Meglio entrare
subito nel mercato, chè questa è una cosa seria, qui non si fanno chiacchiere.
E allora si ruba il tempo. Si ruba il tempo. Poche cose sono peggiori.
In conclusione dunque: oggi la
scuola non è la Scuola. È alienata, non è se stessa, ha perduto la propria
essenza. Nel rapporto conflittuale tra Scuola e potere il potere ha stravinto.
Ha fatto della Scuola il tempio del consenso alla sacralità del pensiero unico
neoliberista. La Scuola, il luogo dove si coltiva il cambiamento, è il triste
luogo della conservazione. La scuola reale è la scuola alienata. Scrive Nappini
alla fine che la prima vittima sociale di tutto questo è il
docente...l’altra vittima è la società italiana. E Naldini: quale può
essere il futuro di un paese che ha demolito il libero pensiero e la
possibilità di dire no?
Allora che fare? Resistere, resistere,
resistere. Ma come? Dove?
Nappini
afferma che la posta in gioco è il futuro della scuola italiana: scegliere
di seguire i modelli culturali nord americani o trovare una propria via? E
auspica una scuola pubblica che si faccia carico del problema della libertà
di pensiero. Ecco oggi il principale luogo di resistenza, quando il mondo è
stato ormai conquistato dal pensiero unico in una egemonia economica che è
diventata anche ideologica, è proprio la Scuola, e, per il compito universale
che è chiamata a svolgere, deve essere Scuola pubblica. Essa può rappresentare
l’autentico luogo di resistenza grazie alla sua natura profonda. Perché appunto
al di sotto dell’uso ideologico della scuola come strumento del potere batte
ancora il cuore dell’essenza della Scuola. L’insegnante è chiamato oggi a
ritrovare e custodire questa essenza, a svolgere il ruolo del paladino del
dissenso, del pensiero che sa dire no. Fare Scuola, cioè continuare a lavorare,
dedicare tempo ed energie per svolgere al meglio l’ora di lezione, per formare
cuori desideranti, amanti, appassionati, e menti libere, pensanti e critiche, è
la medicina più efficace per formare giovani di valore e costruire un futuro
aperto al cambiamento e a un mondo migliore e non al baratro verso cui ci
conduce il dominio attuale del capitale finanziario, ossia la potenza più
immensa e distruttiva che mai sia apparsa sulla faccia della terra e che, dopo
aver distrutto ogni valore che non sia il profitto ammantando di nichilismo il
nostro tempo, ci trascina a un mondo polare diviso tra una piccola minoranza di
padroni e una grande maggioranza di schiavi oppure verso il nulla di una catastrofe nucleare o
ecologica. La Scuola può essere ancora il principale luogo di resistenza al
nichilismo del nostro tempo. Come nota Nappini il senso del lavoro
dell’insegnante deve essere cercato nella qualità e nella dignità del suo agire
quotidiano. Il dovere del docente riposa nella sua coscienza...
Fare Scuola vuol dire fare cultura, sviluppare
l’amore per il sapere, cioè fare filosofia. Lo abbiamo visto, la Scuola, che ha
cura del desiderio di sapere, è, nella sua essenza, filosofica. L’economia, che
guarda la parte, non può capire al di là di se stessa, al di là della sua
parte. Solo la filosofia, che ha cura del Tutto, può capire il mondo. Solo la
filosofia può criticarlo. Solo la filosofia può cambiarlo.
Paolo Vannini
La scuola alienata
Il libro di Iacopo Nappini, Memoria
e confine. Viaggio nel mondo della scuola, con il quarto e ultimo capitolo
scritto da Francesca Naldini,
ricostruisce e analizza criticamente il processo storico con cui si è
arrivati allo stato attuale della scuola italiana. Nappini ripercorre con
grande lucidità e competenza le vicende della scuola nella storia d’Italia, per
le quali si potrebbe fare forse questa periodizzazione: scuola liberale, fascista, prima del ‘68,
dopo il ‘68 e dopo l’89 fino ad oggi. Finchè
Nappini, insieme a Naldini, approda a una denuncia radicale della
condizione attuale della scuola italiana. La sua lettura mi ha sollecitato a
buttar giù qualche considerazione su un tema così urgente e decisivo.
Cos’è la Scuola? La parola viene dal
greco Scholè, che significa tempo libero (dal lavoro e dalla guerra). E
indica quindi un tempo da dedicare a se stessi, al proprio arricchimento,
avendo come fine quella che i greci chiamavano paideia.
Paideia significa educazione ma
nel senso di una formazione umana completa e non professionale. La Scuola educa
a diventare un essere umano, prima che un fabbro o un falegname, dà quindi una
formazione globale, generale, non particolare e specialistica.
Paideia significa anche cultura,
ossia la Scuola è il tempo libero dedicato a coltivare se stessi, il
proprio corpo e il giardino della propria anima.
Ed essa è sì formazione, ma non
nel senso di imporre alla potenzialità ancora informe del ragazzo una forma
dall’esterno ma nel senso di aiutarlo a darsi da sé la propria forma
dall’interno, ad essere artefice di se stesso, a scolpire da sé la propria
statua.
Come ancora paideia è educazione ma non nel senso
di riempire dall’esterno la mente del ragazzo come un vaso vuoto, o in quello
di raddrizzare le viti storte, bensì in quello di aiutarlo a condurre fuori da
sé se stesso, le proprie idee e i propri valori, non quelli del docente, e nel
senso non di raddrizzare ma di rispettare ed amare le viti storte. Da questo
punto di vista ogni insegnante è una levatrice, come Socrate.
Paideia è quindi anche insegnamento, ma nel
senso che l’insegnante dev’essere capace non di suscitare indifferenza ma di
lasciare un segno nel ragazzo, nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita,
ossia deve saperlo affascinare accendendo in lui la fiamma del desiderio, l’amore
di sapere. E l’amore per il sapere è filosofia. Ogni vero insegnamento è
filosofia.
Paideia è infine anche istruzione,
cioè l’attività di fornire informazioni e nozioni, senza i quali si lavora sul
nulla, ma dove l’istruzione è solo una parte e non tutto e dove l’istruzione è
in funzione dell’educazione e non viceversa.
Dunque la Scuola è il tempo libero che
ha come scopo di aiutare la persona a diventare un essere umano, ad essere se
stessa nel modo migliore. Quello che i greci chiamavano aretè, virtù. Ma
cosa significa tempo libero dedicato a diventare un essere umano, ad
essere uomo nel modo migliore? Cos’è un essere
umano?
Da un lato, per Aristotele un essere
umano è un animale dotato di ragione: ciò che è proprio dell’uomo e lo
distingue da ogni altro essere è la razionalità, il pensiero. Ma il pensiero è
critica, capacità di distinguere. Dunque la Scuola è tempo libero per aiutare
la persona a sviluppare una testa pensante e critica.
E dall’altro lato, per Platone, si
impara solo attraverso l’amore. In questo senso la Scuola è il tempo libero
dedicato ad accendere il desiderio, che è ciò che accende la vita, quindi tempo
dedicato ad accendere la vita, a suscitare
la passione, l’amore di sapere, di nuovo filosofia. Ogni vera
scuola è filosofia, la quale anche per Aristotele nasce di fronte a qualcosa
che meraviglia e fa sorgere il desiderio, il desiderio di sapere. Qui lo scopo
è formare cuori desideranti, appassionati. Il segreto della scuola è l’amore.
Deve formare degli amanti. La scuola deve occuparsi solo dell’amore. Il suo
compito è accendere la vita.
Ecco dunque in sintesi, raccogliendo
le cose dette fin qui, la risposta alla domanda cos’ è la scuola? La
scuola è il tempo libero dedicato a formare persone libere che hanno cuori
desideranti e appassionati uniti a teste pensanti e critiche. Questo è tutto.
E se questo è ciò che la Scuola è,
questa è l’essenza della scuola. Per indicare la Scuola fedele alla sua
essenza, sto usando la parola con la lettera maiuscola. La Scuola, quella con
la lettera maiuscola, è la vera Scuola, la Scuola in quanto essa è se stessa, è
ciò che è. Ma ciò significa che l’essenza della scuola è intimamente
conflittuale rispetto al potere (politico e quindi economico). Giacché infatti
essa è filosofia, è l’attività di mettere in dubbio ciò che è dato per
scontato, e dunque la realtà esistente. La Scuola è il luogo per eccellenza
dove si ha cura delle condizioni del dissenso. La sua essenza è essere palestra
di persone che con passione pensano e criticano il mondo. E per questo lo
migliorano. La scuola è il motore del cambiamento e del progresso. E’ il luogo
dove si gettano i fondamenti per imparare a dire di no. È per natura dinamica e
destabilizzante laddove il potere è statico e conservativo.
Ma, se questa è l’essenza della Scuola,
cos’è la scuola oggi? Come si nota, occorre subito passare alla lettera
minuscola. La Scuola è la scuola ideale, la scuola come dovrebbe essere, la
scuola è la scuola reale, la scuola com’è. E La scuola reale oggi è
forse fedele alla propria essenza, è quello che è? Ecco, niente affatto, anzi
essa è esattamente l’opposto, non è più se stessa, è diventata altro dalla sua
essenza, si è alienata. E non è più indipendente dal potere e sguardo critico
su di esso ma strumento del potere, totalmente asservito ad esso. Com’è
avvenuto questo ribaltamento, frutto ovviamente di un lungo processo di
strumentalizzazione della scuola da parte del potere, com’è successo tutto ciò?
Per limitare il discorso a tempi non
troppo lontani, dopo che il ‘68, a partire da don Milani il quale, scrive
Nappini, vedeva la scuola come il luogo ove si formava il senso critico e il
singolo imparava a reagire ai condizionamenti e aveva denunciato il
carattere classista, punitivo e selettivo della scuola italiana, funzionale
all’economia capitalistica, assistiamo negli anni ‘80 (prendiamo l’89 come data
simbolo) alla poderosa controffensiva del capitalismo nella sua forma più
radicale e aggressiva, il neoliberismo, che non solo intende
riconquistare le posizioni perdute negli anni ‘60 e ‘70 ma vuole anche
stravincere abbattendo tutti gli ostacoli che pongono un limite al
raggiungimento del suo scopo, cioè il profitto privato. Il capitalismo è
volontà illimitata di profitto privato. Il capitalismo è senza limiti.
Ma non avere più limiti significa che il
capitalismo aspira a diventare tutto, mediante il processo che ha il nome di globalizzazione
ed indica l’estensione del capitalismo al mondo intero. Ossia il
capitalismo, da capitalismo limitato, aspira a diventare capitalismo globale,
cioè assoluto. Il che significa annientare appunto ogni limite, e i limiti maggiori rimasti, dopo aver sconfitto quello principale,
il comunismo, sono la politica, cioè lo stato, la religione, cioè la chiesa, e
la cultura, cioè la scuola. Annientarli non significa fare in modo che non
esistano più ma stravolgere la loro essenza per piegarli e deviarli verso un
altro fine. La politica, cioè l’attività di promuovere il bene comune, diventa
quella di realizzare il bene privato dei grandi poteri economici e finanziari,
la religione, cioè la fede in Dio, diventa fede in quel nuovo Dio che è il
denaro che, come scrive Nappini, da mezzo diviene scopo ultimo
dell’esistenza, la cultura, cioè l’attività di formare persone libere, pensanti e critiche, diventa
l’attività di preparare persone acritiche adatte al mercato, a creare, come
nota Naldini una futura massa di lavoratori privi di autostima, pronti a
inchinarsi di fronte al datore di lavoro.
Per quanto riguarda la scuola, dunque,
assistiamo alla realizzazione del poderoso progetto di progressiva distruzione
capitalistica della Scuola snaturandone l’essenza con riforme nelle quali, osserva
Nappini, il parere degli insegnanti di solito non è preso in considerazione
dalla politica che riforma la materia dall’alto. Il momento decisivo con
cui comincia questo processo è la riforma Berlinguer, proseguito poi da
tutte le riforme e governi successivi, di destra e di sinistra, ormai d’accordo
nella celebrazione del capitalismo come unico mondo possibile. Coerentemente
con quel grandioso processo con cui la sinistra ha fatto propria l’intera
ideologia della destra. Per cui, se ha un senso dire che è superata oggi
l’opposizione tra destra e sinistra, è solo perché la sinistra è diventata
destra (per quanto continui a chiamarsi sinistra). Ormai esiste solo la destra,
in quanto ciò che si chiama sinistra e ciò che si chiama destra crescono su un
terreno comune, la convinzione che il capitalismo sia intrascendibile e anche, nonostante
l’evidenza contraria, il migliore dei mondi possibili.
Il marchio di fabbrica di questo immane
processo di snaturamento della scuola, alienandola dalla propria essenza, è la
concezione, che s’impone con la riforma Berlinguer, della scuola come azienda.
A questo punto tutto è già stato fatto e ciò che viene dopo non è altro che una
logica esecuzione e conseguenza di questa premessa.
Si tratta di capire che qui avviene un
plateale rovesciamento di fine. La scuola azienda ha un fine diverso dalla
Scuola. Il fine della Scuola, lo abbiamo visto, è il bene di ciascun individuo
come aretè, virtù, cioè piena
realizzazione di ognuno in quanto persona desiderante e pensante, quindi
il bene di tutti. La Scuola è nella sua
essenza una realtà etica, ha per fine il
bene comune. Ma lo scopo dell’azienda è invece il profitto, o comunque la
produzione, in ogni caso il bene dell’azienda stessa. Entrando nella logica
dell’azienda dunque si entra automaticamente in una logica privata perché
un’azienda cerca di fare non il bene comune ma il proprio bene in concorrenza
con le altre aziende. Così si attribuisce alla scuola pubblica una logica
privata. Anche la scuola pubblica
diventa una copia di quella privata. A questo punto ogni scuola è
privata. Ma è ovvio che la scuola privata, l’originale, è più adatta di quella
pubblica che la imita, la copia, a incarnare questa logica e dunque è ovvio che
si tenda a favorire la scuola privata, foraggiandola di finanziamenti, e si
svantaggi quella pubblica, togliendole fondi (e giustificando i tagli con la
crisi economica, osserva Naldini). La scuola, nella logica dell’azienda, è
destinata a sbilanciarsi sempre più verso quella privata.
In questo modo la scuola diventa
un’azienda che vende un prodotto, chiamato formazione, comprato da studenti che
dunque sono clienti, consumatori di formazione, la quale pertanto diventa
merce, io te la vendo e tu me la paghi. Scrive Nappini che le nuove
politiche neoliberali...hanno imposto...l’idea che sia utile passare a logiche
di mercato e considerare i discenti e le loro famiglie...come consumatori di
formazione. È quella che egli chiama
la logica dello studente cliente riportando Max Weber quando scrive che dell’insegnante
che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le
sue nozioni per il denaro di mio padre come l’erbivendolo vende i cavoli a mia
madre. Così la filosofia del capitalismo diventa la filosofia della scuola
e la cultura subisce totalmente la logica dell’economia. L’economia sottomette
a sé la cultura. E la scuola diventa ideologica, apparato ideologico di
stato, come la chiamava Althusser, strumento di trasmissione dell’unica
ideologia rimasta, l’ideologia neoliberista.
Naturalmente per svolgere questa
funzione la scuola ha bisogno di essere seducente perché deve vincere la
competizione strappando clienti alle altre scuole, e così cerca di
imbellettarsi per presentarsi con l’aspetto migliore possibile, per fare colpo,
mostrandosi come una scuola dinamica che
fa mille attività, iniziative e progetti. Non importa se molti di questi sono
fumo e altri sottraggono prezioso tempo di studio, importante è risultare
attraenti, a costo di apparire più belli di quello che si è. È quella che
chiamerei la scuola prostituta. Così la scuola, che dovrebbe
essere custode di verità, diventa fonte di menzogna e fa passare il messaggio
che conta l’apparire più che l’essere. Del resto, se si fanno tanti progetti e
ci si mostra scuola all’avanguardia, si possono ricevere più soldi e il denaro
val bene qualche piccola bugia. Nota
Naldini che la scuola che sa essere più
attraente è quella che riceve più soldi e quindi offre maggiori opportunità,
con inevitabile divario tra scuole di serie A, B e C. E Nappini constata che si agisce secondo il concetto
di portare la concorrenza dentro il sistema scolastico e di far competere fra
loro le scuole anche nel senso di determinarne il successo o la chiusura. Perchè
la competizione fra scuole...in questa prospettiva darwiniana è una garanzia di
successo dell’istituto più forte.
Ma allora è evidente che il fine della
scuola non è più la formazione di persone libere, con un cuore desiderante e
appassionato e una mente pensante e critica, ma la preparazione al mondo del
lavoro. La scuola non è più indipendente, è dipendente dall’economia. Non è un
fine in sé, deve servire il lavoro. Così la scuola diventa tutta professionale,
anche i licei, perché ha fatto propria una logica professionale. Il suo fine
non è più accendere il desiderio di sapere ma imparare abilità e competenze che
servono al mondo del lavoro. Il fine non è più il bene (comune) ma l’utile
(privato). La scuola non è più una realtà etica ma economica. E il mondo del
lavoro del quale la scuola diventa semplice propedeutica non è il lavoro
libero, sicuro e gratificante di una società giusta, ma quello costretto,
insicuro e alienante dell'odierna società ingiusta. E' quello del capitalismo
neoliberistico globale, il mercato nel quale lo studente è destinato a
inserirsi come sfruttato, emarginato, precario, schiavo, secondo quella forma
odierna di schiavitù che è il lavoro precario senza diritti. Che la scuola
abbia per fine il lavoro è il trionfo del mercato e delle grandi forze
economiche e finanziarie. Il loro progetto è riuscito.
Questo spostamento gigantesco, nella
scuola, dalla cultura al mercato, si mostra nel modo più plateale nel
linguaggio. Il linguaggio della Scuola è scomparso, sostituito da quello
dell’azienda. Nappini lo definisce il predominio del linguaggio mercantile
nelle scuole. E così si parla di
profitto, capitale umano, risorse umane, debiti, crediti, domanda e offerta
formativa, investimenti formativi,
preside manager, anzi ormai nemmeno preside, parola che almeno conserva
un po' di calore (colui che siede avanti e accanto) ma il più algido dirigente, come i dirigenti
d’azienda che dirigono, cioè dicono loro in che direzione e verso quale meta si
deve andare, dotati, come scrive Naldini, di pieni poteri di direzione, coordinamento
e valorizzazione delle risorse umane.
Ma il linguaggio non è poco, è tanto, è
tutto. Il linguaggio esprime concetti, ideali, valori, visioni del mondo. Che
la scuola parli il linguaggio dell’economia significa che ha fatto propria l’ideologia dominante del
capitalismo neoliberista, ha introiettato le sue idee e i suoi valori:
individualismo, atomismo, produttività, performance, competizione, competenza,
efficienza, principio di prestazione, mito dell’affermazione individuale,
narcisismo. Come osserva Nappini: il denaro, il successo individuale,
l’aspetto esteriore e l’ostentazione della ricchezza sono...misura di tutti i
tipi di relazione...e sola prospettiva per gli umani rimane il successo, la
fama e l’arricchimento personale. E si vede il senso della vita come un
calcolo...dei costi sostenuti, profitti realizzati e piaceri ottenuti. E
ancora aggiunge che l’egemonia culturale è passata saldamente in mano al
pensiero unico neo-liberista. Così l’allievo smette di essere un essere
umano e diventa una macchina, come un computer da riempire di file, che deve
realizzare prestazioni adeguate.
E
tuttavia questi valori sono espressione di una filosofia. Anche l’ideologia ha
alle spalle una filosofia e in questo caso si tratta di una grande filosofia.
La sua base è l’equazione economia natura. L’economia, che oggi ha assunto la
forma dominante del capitalismo finanziario, è lo sviluppo più coerente della
natura umana, che è egoismo e volontà di potenza. Difatti in economia, come in
natura, vale un’unica legge che è la legge del più forte, dove i deboli
soccombono. L’uomo è un lupo e la vita è una lotta, di tutti contro tutti, è la
giungla dove vale la legge del più forte. È quella che Nappini chiama competizione
darwiniana. Dunque la giungla del mercato è naturale espressione della
giungla della vita. Il mercato è naturale. Così se ne cancella la sua genesi
storica; se il mercato e l’economia capitalistica sono nati nella storia
infatti, come tutto ciò che nasce, sono destinati a morire, se invece sono naturali,
come il fuoco che scalda, sono destinati ad esistere sempre. In quanto naturale
il capitalismo viene eternizzato. È questa la filosofia dell’attuale
capitalismo finanziario, ma appunto ha dietro di sé una grande tradizione
filosofica, il pensiero di Callicle, Hobbes,
Locke, Smith, Nietzsche. Non
sarebbe possibile la speculazione finanziaria senza la filosofia. È sempre la
filosofia che decide. Così la giungla della natura, che è la giungla del
mercato, diventa anche la giungla della scuola e la filosofia del capitalismo
finanziario diventa anche la filosofia della scuola.
In qualcosa questa concezione dice il
vero: il mercato senza limiti è esattamente la giungla, lo stato di natura di
Hobbes, dove vige solo la legge del più forte ed è l'inferno degli ultimi. Se
poi qualcuno crede ancora davvero che una mano invisibile conduca la giungla
degli egoismi particolari al bene generale non resta che congratularsi di tanta
innocente e stupefacente ingenuità. Ma basterebbe dar voce al numero
incalcolabile dei morti e gli affamati del nostro tempo per smentirlo
drasticamente.
Così ai valori propri della Scuola, cooperazione, solidarietà, relazione,
incontro, valorizzazione di tutti, si sostituiscono quelli del mercato,
produttività, competizione, conflitto e così
via, appunto perché la vita è una gara e una dura lotta. Guai a chi resta
indietro. Si entra così, scrive Nappini, in una dimensione di dissoluzione
della collettività e della socialità perché viviamo nel tempo
dell’egemonia del pensiero neoliberale per cui la prospettiva
individualistica...si è trasformata nell’unico orizzonte di senso.
Questa filosofia deve entrare anche
nelle teste degli insegnanti. La cosiddetta buona scuola (che si
autoelogia da sola e, in quanto buona, non può essere criticata perchè se è
buona qualsiasi critica ad essa non può essere che cattiva) istituisce il bonus
di merito per loro. Non sia mai che gli insegnanti, umiliati e offesi, che
hanno gli stipendi più bassi d’Europa e, scrive Nappini, in un mondo in cui
contano le nude cifre dell’economia...sono relegati in basso nella scala della
gerarchia sociale, debbano avere un adeguamento generalizzato di stipendio
e una rivalutazione del loro ruolo e della loro considerazione sociale! Certo
che no, solo i bravi, quelli che lo meritano. Si manifesta qui un atteggiamento
di fondo di sfiducia nei confronti degli insegnanti, una diffidenza che porta a
pensare, spesso a dare per scontato, che non facciano nulla, lavorino poco,
figuriamoci, appena 18 ore la settimana, e che solo i pochi che meritano
abbiano diritto a un premio anche economico.
In questo modo si dividono gli
insegnanti, si insinua appunto tra di loro una logica di competizione, invidia,
risentimento. E così si avvelena la scuola. Certo docenti divisi, che litigano
tra loro, si controllano meglio, gli si fa fare più facilmente quello che si
vuole. Divide et impera, ovviamente. Pertanto la scuola viene divisa tra
insegnanti di serie A e di serie B, togliendo autorità, anche in classe davanti
agli studenti, a quelli di serie B che, si penserà, evidentemente sono meno
bravi.
In realtà non è vero nemmeno questo
perché chiediamoci: in che modo si scelgono gli insegnanti che meritano? Qui
tocchiamo il punto forse più centrale e più doloroso, perché si ha veramente la
misura di come la Scuola sia stata snaturata. L’essenza di questo lavoro,
l’insegnamento, è l’ora di lezione, secondo la felice espressione usata
dal bel libro di Massimo Recalcati. L’ora di lezione è il tempo in cui
l’insegnante svolge il suo lavoro di accendere il desiderio, suscitare l’amore, il pensiero, la critica,
comunicare il messaggio che è possibile vivere una vita piena di senso.
Qui si vede il merito dell’insegnante.
Ma per ottenere questo deve fare un grande lavoro, di studio a casa, di
preparazione delle lezioni, di riflessione su cosa dire, come dirlo, e cosa non
dire, e in che modo interessare, toccare, infiammare gli studenti, e come
rivivere lui stesso in modo nuovo, rivitalizzando ogni volta, ciò che ha
spiegato già mille volte, e come capire i messaggi che vengono dai ragazzi, le
loro difficoltà, uno per uno, curando la relazione, più importante dei
contenuti. Questo è il lavoro che merita. Questo è, nella scuola, tutto. Ma per
far bene questo l’insegnante ha bisogno di tanto tempo, tempo libero a casa
prima di tutto da dedicare allo studio e alla preparazione del suo lavoro.
Oltre che di classi meno numerose, Naldini si chiede come è possibile
garantire il diritto ad apprendere e la crescita educativa di tutti gli alunni
in classi pollaio dove sono ammassati 27-30 studenti. Sarebbe facile,
dateci classi di 10-12 studenti e d’un colpo la buona scuola sarà fatta.
Purtroppo però tutto questo lavoro, che
è l’essenziale, è proprio quello che non si vede, l'essenziale, si sa, è
invisibile agli occhi, e allora il bonus
di merito non può premiarlo, cioè il bonus di merito non può premiare il lavoro
che merita. Pertanto viene assegnato a chi fa altro, iniziative, progetti,
attività extracurriculari aggiuntivi, non essenziali, per i quali si sottrae
tempo a ciò che è essenziale. E così spesso si premia non il merito ma il
demerito.
E chi lo attribuisce il bonus di merito?
C’è un comitato di valutazione di docenti, che, se dovessero decidere loro, si
troverebbero quasi nella posizione di moderni Kapò della scuola, arbitri dello
stipendio e della reputazione dei colleghi; in realtà però non contano nulla
essendo la decisione finale esclusivamente nelle mani del Dirigente che premia
spesso appunto chi non merita, in modo assai oscuro. Naldini scrive che i
Dirigenti Scolastici devono valutare gli insegnanti con un comitato a loro
totalmente asservito. I premiati ricevono soldi pubblici in più senza che
si sappia pubblicamente chi sono, per quale motivo li abbiano presi e perché
non li abbiano presi gli altri. Si sa solo che ci sono criteri di attribuzione,
e quali, ma sono molto vaghi e lasciano grande spazio all’arbitrio, mentre il
resto è avvolto dall’omertà, alla faccia della trasparenza della pubblica
amministrazione. Naldini è lapidaria: Trasparenza è parola estranea a molti
Dirigenti scolastici...
Che il Dirigente abbia tutti questi
poteri, come anche la chiamata diretta dei docenti, con cui, scrive ancora
Naldini, ogni possibile opposizione dei docenti neo-assunti o precari è
stata definitivamente stroncata, non stupisce. La concentrazione di potere
nelle mani del dirigente rende la scuola meno democratica. La democrazia
è il potere che sale dal basso, una scuola in cui il potere è accentrato e
scende dall’alto è meno democratica e più autoritaria. Lo stesso Nappini parla
della trasformazione della scuola pubblica in senso tanto centralizzato
quanto autoritario. Ma, dicevo, non stupisce. La democrazia è uno dei
limiti maggiori di cui il capitalismo globale deve sbarazzarsi giacchè il fine
della democrazia ossia il bene comune è diverso da quello del capitalismo cioè
il profitto privato, pertanto questi ha bisogno di figure, i Dirigenti, nella
scuola e nello stato, che eseguano fedelmente i suoi ordini per realizzare i
suoi scopi. In questo senso non solo la cultura e la scuola ma anche la
politica e lo stato oggi sono morti perché hanno perso la loro anima per
diventare servi dei diktat del mercato e della finanza. Hanno venduto l’anima
al diavolo, e il diavolo è il capitalismo globale. La scuola è serva della politica
e la politica è serva dell’economia. Oggi l’economia è tutto, la politica, e la
Scuola, sono nulla.
Naturalmente togliere tempo e
riconoscimento a ciò che nella scuola è essenziale e rivolgere tempo e riconoscimento a ciò che è inessenziale, fa
scadere la qualità della scuola. L’aspetto più inquietante è che oggi l’ora di
lezione, cioè l’essenziale, è ai margini, mentre mille altre cose,
l’inessenziale, sono al centro. Tutto è rovesciato. La pietanza diventa
contorno e il contorno pietanza. Ma, di nuovo, anche questo serve. Serve al
Capitale per screditare la scuola pubblica e quindi valorizzare quella privata.
Scrive Naldini che il fine...è distruggere la scuola pubblica, o meglio
eliminare cultura ed istruzione, perché il mondo dell’economia e della finanza
nonché i poteri militari richiedono popoli ignoranti.
Il pubblico è uno dei grandi
limiti che il Capitale deve abbattere riducendolo a privato per poter scatenare
indisturbato, senza limiti, la propria brama di profitto. Da qui la tendenza a
privatizzare tutto, col neoliberismo, e pertanto anche la scuola. Certo la
scuola è l’istituzione pubblica più resistente, per questo il lavoro ai fianchi
dev’essere lento e profondo, penetrare nella testa della gente, ma la direzione
è quella di sostituire la scuola privata a quella pubblica come scuola di
qualità, alla maniera del mondo anglosassone, grande padre del neoliberismo, ma
come avviene in parte anche in Italia dove le università eccellenti sono quelle
private, per i ricchi. E' ovvio, se la logica è una logica di mercato, più
spendi più compri una merce migliore.
Eppure, come sappiamo, la Scuola è prima
di tutto un diritto, un diritto universale che una scuola privata, che ha
natura particolare, non può soddisfare e per la quale sarebbe necessaria un’autentica
scuola pubblica, a vocazione appunto universale. Mentre, scrive ancora Nappini,
nei paesi di cultura anglosassone come gli Stati Uniti e il Regno Unito
l’istruzione di buon livello è un bene che si può comprare e non è quindi un
diritto. Negli Stati Uniti la Costituzione non riconosce il diritto allo
studio, la scuola pubblica è un servizio sociale per i poveri che non possono
permettersi di pagare le scuole normali. E Nappini denuncia anche in modo
implacabile i tentativi, già realtà altrove, di introdurre anche nella scuola
italiana le aziende private, la
pubblicità, il marketing, il branding dell’istruzione, insomma
l’apertura della scuola al capitale privato che la vede come straordinaria
occasione di lucro per saziare la propria comunque insaziabile voracità.
Coerente con tutto questo processo è
anche la malattia, di cui oggi la scuola
soffre gravemente, dello scientismo.
È evidente, il capitalismo globale, il massimo potere della terra, può
esercitare la sua forza grazie alla potenza della scienza e della tecnica.
Scienza e tecnica hanno per fine il dominio
ed è grazie alla scienza e alla tecnica che il capitalismo domina il
mondo. Ma il dominio ha bisogno di specializzazione.
Per dominare qualcosa la devo conoscere nei minimi dettagli e per conoscerla
nei minimi dettagli devo possedere un sapere analitico fortemente
specializzato. In questo modo s’impone l’ideologia scientista che il vero
sapere è quello che serve e quello che serve è quello che ci permette di
dominare e quello che ci permette di dominare è il sapere altamente
specializzato, cioè tecnico scientifico, che pertanto è l’unico sapere utile.
Espressione evidente di questa visione
neoliberista e scientista è la cosiddetta scuola delle tre i, inglese,
impresa, informatica. Beh! mettere al centro della scuola l’impresa è
un’evidente, spudorata ammissione che la
scuola deve servire al mercato, all’organizzazione capitalistica del lavoro.
Mettere al centro l’informatica serve a integrarsi nell’attuale mondo
globalizzato ma non certo a formarsene una visione complessiva e a criticarlo.
E poi l’inglese.
Nessuno nega ovviamente che sia oggi
importante conoscere l’inglese, che sia segno di un nostro provincialismo
culturale italiano conoscerlo troppo poco e che non ci si debba chiudere in
modo nazionalistico ad altre lingue e culture e in particolare alla lingua e
alla cultura più diffuse del mondo. Ma occorre anche stabilire dei limiti. È
giusto usare una parola inglese quando non c’è una parola italiana per
esprimere o per esprimere al meglio un concetto, ma non lo è quando esiste già
una parola italiana. Perché, se sostituiamo le nostre parole con parole
inglesi, permettiamo che la nostra lingua sia colonizzata da un’altra.
Svendiamo la nostra lingua e la nostra cultura, così dense di tradizione e di storia, come fossero
inadeguate e inferiori. Favoriamo il processo con cui il capitalismo
finanziario, che parla inglese, diventa globale e colonizza il mondo. L’inglese
che ci sta invadendo non è quello della cultura, non è l’inglese di Shakespeare,
ma quello dell’economia, è l’inglese della finanza: governance, spread, Jobs
act e così via. Il dilagare dell’inglese è oggi uno dei segni più evidenti
della colonizzazione del mondo da parte del capitale finanziario.
Per non parlare del progetto CLIL. Ci
può essere qualcosa di più insensato che far insegnare in lingua inglese
docenti di altre materie, che conoscono la lingua meno dei propri studenti? Se
si parla tanto di competenze, non dovrebbe insegnare in inglese solo chi ha la
competenza per farlo? Non basta fare un rapido corso e prendere in fretta un
diploma per parlare una lingua, e poi
l’insegnamento Clil, anche dove viene messo in atto, si riduce alla
preparazione di un’unità didattica di mezza paginetta in un intero anno, che
però costa al docente una penosa fatica. Ma l’argomento non merita nemmeno di
sprecarci tempo, tanto è evidente l’assurdità. Per fortuna è un’esperienza che
è già fallita sul campo, alla prova dei fatti, e non ci voleva molto per
prevedere questo risultato. In conclusione quindi restiamo sì aperti
all’inglese ma difendiamo anche la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra
storia, la nostra identità, affinché la globalizzazione sia un arricchimento
nell’unità tollerante delle differenze e non l’impoverimento di un’unità
intollerante che le cancella. Se non c’è la parola italiana, sia benvenuta
anche quella inglese, però, se la parola italiana c’è, allora preferiamo lei.
Ma, tornando allo scientismo, è chiaro
che, se il sapere dello scientismo è analitico, non è sintetico. Se è particolare non è globale. Se vede solo
la parte non vede il tutto, e se non vede il tutto non capisce davvero. Dunque
oggi la scuola vuole formare persone abili e competenti a risolvere singoli
problemi, abilità e competenze da valorizzare poi nel mondo del lavoro, ma
incapaci di una visione globale e quindi di vera comprensione e di
critica. Persone competenti ma stupide, che sanno calcolare ma non pensare,
l’ideale per gli scopi del capitale. La pedagogia delle competenze, oggi
dilagante nella scuola, proprio per la sua finalizzazione al mondo del lavoro,
cioè al mercato, è conservatrice, serve a inserirsi nel mondo senza criticarlo
e quindi a conservarlo com’è.
A questo è finalizzato il dominio di
pratiche analitico scientifiche nella scuola. Esempio l’abuso delle griglie di
valutazione, che spezzettano una prova, scritta o orale, dando un singolo voto
a ogni suo aspetto e poi facendo la somma. Il che è come fare l’anatomia di una
persona viva: ovviamente la si uccide. Una prova, come un’interrogazione o un
compito, è una totalità organica, che palpita di vita, e allora la valutazione
dev’essere una valutazione sintetica, globale, nella quale conta anche
l’intuizione dell’insegnante, altrimenti si perde la prova perché, tagliandola
la si uccide e la si fa diventare, da cosa viva, cosa morta. Difatti la maggior
parte degli insegnanti prima dà un voto globale dentro di sé alla prova e poi
lo aggiusta dividendolo in giudizi parziali. Il tutto è qualcosa di più della
somma delle parti, questo principio semplice della Gestalt è completamente
dimenticato dai nostri pedagogisti malati di scientismo. Le griglie di
valutazione sono una peste della scuola, la tendenza diabolica a voler
quantificare e misurare tutto, anche ciò che non si può.
E così l’uso di somministrare
questionari, test e quiz di tutti i tipi in modo da permettere una
valutazione più oggettiva, per fare come gli anglosassoni, perché quello che
conta non è se lo studente ha sviluppato un proprio interesse ma se sa la
nozione e sa fare la crocetta giusta. Se poi azzecca tirando a caso pazienza.
Conta la quantità di risposte giuste. Conta la quantità. Così quello studente
lo possiamo numerare. Naldini parla di una scuola che, con gli INVALSI ed i quizzoni obbliga i giovani al nozionismo.
Oppure la cosiddetta Unità di
Apprendimento, della quale nessuno ha capito bene cosa sia. Ciò che si
capisce è che si tratta di impostare in ogni materia un lavoro su un argomento
specifico che comprenda una somma di unità didattiche da svolgere durante l’anno.
Ma il compito della scuola, prima dell’università, è quello di fornire allo
studente le strutture fondamentali di ogni materia. E una struttura è una
totalità, come la struttura che sorregge un edificio. Se si fa per un certo
tempo un lavoro specifico si compromette la possibilità di lavorare per formare
un quadro generale. La scuola che precede l’università dev’essere sintetica, a
vari livelli di difficoltà nei diversi livelli di scuola. L’università poi sarà
analitica. L’Unità di Apprendimento che, in quanto lavoro analitico e
specifico, ostacola, impoverisce o addirittura compromette un lavoro volto
all’apprendimento di una visione globale, della struttura di una materia,
lavora a formare menti che vedono solo la parte e non il tutto, e chi non vede
il tutto non può né capirlo né criticarlo. Ad avere cura dell’intero è la
filosofia. Se l’essenza della Scuola è filosofica, la scuola reale è
antifilosofica.
Pertanto al dominio attuale dello
scientismo occorre contrapporre una rivalutazione delle materie umanistiche,
volte a formare l’uomo. Naldini evidenzia la tendenza a togliere ore di
insegnamento a discipline che promuovono lo spirito critico e la libera
riflessione come Filosofia, Storia, Diritto, materie umanistiche. E Nappini
osserva un processo che tende a svalutare le materie umanistiche le quali
dovrebbero, per loro natura, ampliare le capacità critiche della gioventù, far
sviluppare la capacità di pensare e capire la realtà. Ciò non vuol dire
trascurare o svalorizzare quelle scientifiche ma riassestare il rapporto ora
troppo sbilanciato a loro favore. Si
dice che con le materie umanistiche non si trova lavoro. E dopo che faccio?
Troverò lavoro? Ma già questa domanda è un
tradimento della Scuola. La Scuola vuole che tu trascorra il tuo tempo libero
godendo ora della tua formazione e non pensando a quale lavoro dopo. Occorre
rivalutare le materie umanistiche che danno una visione globale e quindi
critica e intelligente del mondo. Chi ha
capacità di avere una visione globale, critica e intelligente sarà facilitato
anche a trovare lavoro. La Scuola non è finalizzata al lavoro ma alla
formazione e tuttavia la formazione di una persona appassionata e intelligente
è anche lo strumento migliore per il lavoro. Eppure, scrive Nappini, le
tendenze in atto sono quelle di vendere pacchetti di conoscenze per formare
rapidamente tecnici da immettere nel mercato del lavoro col pericolo di porre
in essere una vera e propria catastrofe culturale nel campo umanistico.
La finalizzazione della scuola al
lavoro, al mercato, e non all’uomo, è evidente nell’introduzione scolastica
dell’esperienza scuola lavoro. È
un’innovazione che prima di tutto mette in grande difficoltà sia gli studenti
che gli insegnanti. Gli studenti sono costretti a passare un periodo, mediamente
di quindici giorni, in un’azienda,
perdendo tempo di scuola, cioè libero dal lavoro, per un tempo di
lavoro. E vanno là dove si riesce a trovare, uno studente qua un altro là, in
modo del tutto disorganico rispetto all’attività scolastica, con la quale
l'attività di scuola lavoro non c’entra niente. E’ come inserire in un
organismo animale un corpo estraneo. Durante quel periodo gli studenti non
studiano, per se stessi, ma lavorano gratuitamente, non pagati, per altri, che
ne beneficiano. Una volta si chiamava sfruttamento, e per lo più di minori,
decretato per legge. E poi magari facessero l’esperienza tutti insieme! No, un
gruppo la fa un periodo un gruppo un altro, per cui i docenti si trovano in
tempi diversi classi con più alunni assenti, talvolta dimezzate, e non sanno
che fare, se spiegare o no, se fare verifiche o no. Mentre gli studenti perdono
spiegazioni e compiti col rischio poi di ritrovarsi indietro e in difficoltà.
Senza contare il tempo perso dagli insegnanti e i loro problemi nel trovare le
strutture, seguire i ragazzi, raccogliere le relazioni, leggerle, valutarle e
così via. Un compito oneroso e deviante che di nuovo sottrae tempo ed energie a
ciò che è essenziale. La Scuola oltre che un diritto è un privilegio, tanti
bambini del mondo non possono goderne, ma lo è perché è tempo di studio, libero
dal lavoro, non è tempo di lavoro. Il lavoro non può rubare alla Scuola il suo
tempo. L’esperienza scuola lavoro è un fallimento.
A questo proposito c’è da aggiungere
anche che il tempo di lavoro degli insegnanti è enormemente aumentato negli
ultimi anni, per fare riunioni di tutti i tipi di pomeriggio o svolgere mansioni, spesso burocratiche, a
casa, oltre che programmare, occuparsi di progetti, correggere i compiti e
mille altre cose. In particolare la figura del coordinatore è diventata
terribilmente oberata di impegni, senza che a questo aumento imponente di
lavoro sia stato corrisposto riconoscimento economico se non minimo.
Naturalmente così l’insegnante ha meno tempo per studiare e prepararsi le
lezioni e la qualità della scuola peggiora sempre di più.
Mentre sto scrivendo vengo a sapere che
la ministra Fedeli ha promosso per decreto una sperimentazione che prevede un
liceo di quattro anni con le ore annuali aumentate dalle attuali 900 fino a
1100-1220 occupando ovviamente parte delle vacanze con ore di scuola o di
esperienza scuola lavoro. Davvero non c’è mai fondo al peggio! Da un lato si
priva i ragazzi di un anno di scuola, di tempo libero per se stessi, di
arricchimento, per poterli immettere da sfruttati ancora prima e ancora più poveri culturalmente nel
mondo del lavoro, dall’altro si ruba loro il tempo, il tempo libero, il tempo
di vacanza. E così si ruba loro il diritto al riposo, al recupero, alla sosta,
a un tempo di indugio, di pausa, di silenzio, nel quale lavorare dentro e far
sedimentare e maturare i semi del proprio rapporto emotivo e mentale con la
vita. No, si deve riempire ogni vuoto, saturare tutto, produrre, produrre,
essere efficienti, chi resta indietro è perduto; il tempo libero, il tempo di
vacanza in fondo è tempo perso, secondo la mentalità efficientistica e
produttivistica del mercato e dei nostri politici, anche di sinistra, ormai
stregati dai mantra del neocapitalismo. Perché studiare un anno in più? Con la
cultura non si mangia, si fanno discorsi. Se ne può fare a meno. Meglio entrare
subito nel mercato, chè questa è una cosa seria, qui non si fanno chiacchiere.
E allora si ruba il tempo. Si ruba il tempo. Poche cose sono peggiori.
In conclusione dunque: oggi la
scuola non è la Scuola. È alienata, non è se stessa, ha perduto la propria
essenza. Nel rapporto conflittuale tra Scuola e potere il potere ha stravinto.
Ha fatto della Scuola il tempio del consenso alla sacralità del pensiero unico
neoliberista. La Scuola, il luogo dove si coltiva il cambiamento, è il triste
luogo della conservazione. La scuola reale è la scuola alienata. Scrive Nappini
alla fine che la prima vittima sociale di tutto questo è il
docente...l’altra vittima è la società italiana. E Naldini: quale può
essere il futuro di un paese che ha demolito il libero pensiero e la
possibilità di dire no?
Allora che fare? Resistere, resistere,
resistere. Ma come? Dove?
Nappini
afferma che la posta in gioco è il futuro della scuola italiana: scegliere
di seguire i modelli culturali nord americani o trovare una propria via? E
auspica una scuola pubblica che si faccia carico del problema della libertà
di pensiero. Ecco oggi il principale luogo di resistenza, quando il mondo è
stato ormai conquistato dal pensiero unico in una egemonia economica che è
diventata anche ideologica, è proprio la Scuola, e, per il compito universale
che è chiamata a svolgere, deve essere Scuola pubblica. Essa può rappresentare
l’autentico luogo di resistenza grazie alla sua natura profonda. Perché appunto
al di sotto dell’uso ideologico della scuola come strumento del potere batte
ancora il cuore dell’essenza della Scuola. L’insegnante è chiamato oggi a
ritrovare e custodire questa essenza, a svolgere il ruolo del paladino del
dissenso, del pensiero che sa dire no. Fare Scuola, cioè continuare a lavorare,
dedicare tempo ed energie per svolgere al meglio l’ora di lezione, per formare
cuori desideranti, amanti, appassionati, e menti libere, pensanti e critiche, è
la medicina più efficace per formare giovani di valore e costruire un futuro
aperto al cambiamento e a un mondo migliore e non al baratro verso cui ci
conduce il dominio attuale del capitale finanziario, ossia la potenza più
immensa e distruttiva che mai sia apparsa sulla faccia della terra e che, dopo
aver distrutto ogni valore che non sia il profitto ammantando di nichilismo il
nostro tempo, ci trascina a un mondo polare diviso tra una piccola minoranza di
padroni e una grande maggioranza di schiavi oppure verso il nulla di una catastrofe nucleare o
ecologica. La Scuola può essere ancora il principale luogo di resistenza al
nichilismo del nostro tempo. Come nota Nappini il senso del lavoro
dell’insegnante deve essere cercato nella qualità e nella dignità del suo agire
quotidiano. Il dovere del docente riposa nella sua coscienza...
Fare Scuola vuol dire fare cultura, sviluppare
l’amore per il sapere, cioè fare filosofia. Lo abbiamo visto, la Scuola, che ha
cura del desiderio di sapere, è, nella sua essenza, filosofica. L’economia, che
guarda la parte, non può capire al di là di se stessa, al di là della sua
parte. Solo la filosofia, che ha cura del Tutto, può capire il mondo. Solo la
filosofia può criticarlo. Solo la filosofia può cambiarlo.
Paolo Vannini
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