1 novembre 2014
Parentesi quadra: due recensioni su guerre lontane
Visti i tempi disgraziatissimi credo giusto pubblicare due recensioni rimaste, aimè, nel cassetto. Rimando la pubblicazione del Maestro per questa causa che credo buona Auguro buona lettura
David
Albahari,
Goetz e Meyer, Traduzione Alice
Parmeggiani, Einaudi, 2006, Roma
Goetz
e Meyer è un racconto che si cala nella storia della distruzione della comunità
ebraica di Belgrado durante la Seconda Guerra mondiale e racconta l’ossessione
di un narratore fittizio per un problema di dettaglio storico: capire chi erano
i due esecutori materiali che hanno massacrato migliaia di esseri umani e fra
essi alcuni suoi parenti. I
protagonisti di questa vicenda sono quattro un narratore che nella finzione è
un professore di letteratura, due sottoufficiali delle SS e un carro Saurer
modificato per diventare un veicolo che scaricava i gas di scarico all’interno del mezzo. I
veicoli di quel tipo erano stati modificati in modo da eliminare fisicamente i deportati che venivano
trasportati avvelenandoli e asfissiandoli con i fumi del monossido di carbonio.
L’autore riporta che questi viaggi della
morte, a mezzo di camion modificati e sigillati, siano stati intrapresi per
eliminare circa 700.000 esseri umani nelle retrovie del fronte orientale. Il tentativo di ritrovare e capire i fatti
storici da parte del narratore diventa ossessione e si trasforma in una specie
di malattia psichica che perseguita lo studioso. Un racconto che narra quindi
il cortocircuito fra la storia in quanto tragedia collettiva e dato di fatto
conservato in testi, documenti e archivi
e la capacità umana di pensarla e di
rappresentarla e di farla propria in qualche modo. In particolare è l’incapacità del
narratore-protagonista di visualizzare il volto dei due autisti-massacratori,
di dare naso, occhi, bocca, orecchie, gesti quotidiani, espressione umana ai
due soldati a torturare la sua mente. L’ossessione si snoda fra archivi,
interrogazioni di sopravvissuti, letture di libri, studio del proprio albero
genealogico, enciclopedie e diventa sempre più grave e di fatto una ragione di
vita. Nonostante questo soffrire e
studiare per il protagonista non è
possibile entrare dentro il segreto di chi
erano Goetz e Meyer anche perché continua a immaginarseli nel loro
quotidiano e nella banalità della loro esistenza proprio mentre eliminavano fino a ottanta esseri
per ogni viaggio dal punto di raccolta fino
alla fossa comune. I due ripetevano il
loro viaggio fino a due volte al giorno per sei giorni alla settimana fino allo
svuotamento del campo. Un libro quindi
che entra nella difficoltà di rappresentare gli aspetti tremendi della storia
del Novecento, di farli propri e di dare ad essi una forma compiuta nella
memoria del singolo e probabilmente nell’immaginario collettivo.
Iacopo
Nappini
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Svetlana Aleksievic,
Ragazzi di zinco, Traduzione dal
russo di Sergio Rapetti, Edizioni E/O, 2003, Roma
“Se è stato un errore ,
allora restituitemi le gambe …” questa frase di un veterano mutilato della
guerra afgana, un afgancy, sintetizza
molto bene il senso di disperazione e di
pietà che pervade di “Ragazzi di zinco” e il ruolo che ha giocato la guerra
afgana nella perdita di potenza e di prestigio dell’Unione Sovietica. Non è
facile collocare in un genere letterario questo libro, si tratta di un
reportage narrativo che è allo stesso tempo cronaca di una tragedia umana, una
fonte di testimonianze su un conflitto che è già parte dei libri di storia, la
confessione dolorosa degli errori della società sovietica, una denuncia di
carattere spirituale, umanitario e politico. Il libro uscì negli anni della
dissoluzione dell’URSS e fu motivo di scandalo e costò all’autrice un processo
per diffamazione in quanto presentava il conflitto afgano dal punto di vista
dei reduci, delle madri che avevano perso i figli, delle mogli senza più
marito, dei mutilati nel fisico e nella mente. Il testo è diviso in tre parti:
una breve introduzione, il testo che raccoglie le testimonianze e le interviste,
e infine una postfazione di Sergio Rapetti che inquadra il testo, presenta l’opera
letteraria dell’autrice e descrive i
momenti salienti del processo per diffamazione intentato contro di lei proprio
a causa dei contenuti di questo libro.
Il brutale conflitto
afgano intrapreso dal potere sovietico dal 1979 al 1989 è descritto con crudo realismo attraverso le
testimonianza dei militari e delle loro madri e padri. Gli uomini, le donne , i
ragazzi la maggior parte dei quali poco più che diciottenni che furono inviati
in Afganistan per sostenere “La Grande causa internazionalista” furono
coinvolti in una brutale guerra mai dichiarata formalmente, quasi per nulla
raccontata dal giornalismo sovietico e dalla televisione di Stato, e di
conseguenza semisconosciuta alle popolazioni sovietiche. La popolazione
dell’Unione sovietica cominciò a rendersi conto progressivamente della natura e
dei costi umani di quel conflitto attraverso il passaparola, i racconti dei
testimoni e delle famiglie coinvolte, le canzoni dei reduci, i funerali dei
morti in guerra. I morti spesso ridotti
in pezzi venivano riportati con un aereo da trasporto, era un carico speciale che atterrava di notte,
l’intenzione era quello di farlo passare
inosservato per quanto possibile. L’omertà del potere sovietico e dei militari
non resse alla continuazione della guerra non dichiarata, alla fine durante gli
anni della presidenza di Gorbacëv
fu necessario riconoscere da parte delle
autorità la gravità di quel conflitto e chiuderlo in qualche modo. Il libro
dell’autrice arriva nelle librerie quando la tragedia collettiva è compiuta del
tutto e la guerra finita. Per questo ha la forza persuasiva del coro della
tragedia greca e della confessione collettiva, i numeri del resto sono di14.000
morti, 50.000 fra feriti e mutilati, circa un milione di russi e cittadini
sovietici di entrambi i sessi inviati a vario titolo in Afganistan , mezzo
milione di afgani deceduti, tutto l’Afganistan devastato e distrutto dal
conflitto. L’insieme delle testimonianze che presenta l’autrice è estremamente
composito: c’è l’ingegnere rimasto a casa che si sente colpevole per non aver
mosso un dito durante gli anni del conflitto, il maggiore che ha perso un
polmone in guerra e viene cacciato dal cimitero da una madre di un caduto che
gli rinfaccia d’esser ancora vivo, le madri che cercano di dare una degna
sepoltura ai corpi disfatti e macellati dei loro cari figlioli, infermiere e
dottoresse disperate per le terribili condizioni di lavoro negli ospedali da
campo, il soldato delle forze speciali esperto in agguati all’arma bianca che è
rimasto cieco, giovani trasformati in macchine da guerra pronte a uccidere
dalla brutalità dell’addestramento e
della guerra, ragazze impaurite quando su una spiaggia vedono i veterani
amputati strisciano sulla sabbia per arrivare a toccare il mare anche perché il
numero dei mutilati è superiore a quello delle gambe rimaste attaccate ai
corpi. Fanno da contorno all’elenco di vite distrutte o devastate storie di
droga, di massacri, di mercato nero, di alcolismo, di contrabbando di merci e
di tutto ciò che di criminale e
criminogeno si porta dietro una guerra di guerriglia.
Infine sono citati nei
ricordi dei testimoni anche coloro che
non parleranno mai più e non hanno mai
avuto la possibilità di raccontarsi e si
tratta dei soldati senza nome abbandonati nei sanatori con lesioni o
amputazioni irrecuperabili che non rivedranno chi per scelta, chi per necessità le loro famiglie o
quelli di cui è rimasto dopo l’esplosione di una mina solo un secchio di carne
e la cui salma è stata rimpatriata nella solita bara di zinco con l’ipocrita
dicitura: “morto in incidente stradale”.
Un libro duro insomma
che assolve di riflesso al compito universale di monito contro i retori e i
propagandisti delle guerre giuste e
buone.
L’autrice chiude il
coro del pentimento e del dolore per la guerra persa riportando le parole di una madre il cui figlio è impazzito a causa del
conflitto e una volta tornato è finito in galera per aver ucciso e fatto a
pezzi una persona con la mannaia di cucina:” Quando tacciono le armi la guerra rincomincia da capo. Bisogna
ripensarla, riviverla. E fa ancora più paura…”.
Iacopo
Nappini
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