22 luglio 2014
Sintesi: una recensione militante di dieci anni fa
Dieci anni fa circa pubblicai su una rivista che ebbe vita breve questa recensione militante, per così dire, un pò no-global. Oggi che è passato tanto tempo e la stagione politica è diversa mi pare opportuno ripresentarla in forma domestica su questo blog. Si tratta di considerazioni ormai datate e di due libri da specialisti, eppure in quella vecchia fatica c'è qualcosa che a mio avviso si ripresenta oggi come problema culturale prima ancora che politico. Si tratta dell'idea di togliere alla dimensione della scuola la sua natura specialissima per farne una varibile della programmazione ministeriale, dei bilanci o peggio delle logiche da impresa.
Due libri e nessuna morale
Oleario Sampedro, La scuola
della nuova Spagna, Libriliberi, Firenze, 2002
Gill Helsby, Come cambia il
lavoro degli insegnanti, Libriliberi, Firenze, 2002
Nel
marzo del 2000 il Consiglio europeo di Lisbona ha fissato come obiettivo per la
politica comunitaria nel campo dell’educazione la produzione di capitale umano
redditizio per la competitività economica. Tale proposito è riassunto
nell’obiettivo strategico di far diventare l’economia europea una economia più
dinamica e competitiva grazie alla conoscenza, ufficialmente questo proposito è
votato alla creazione di una crescita economica sostenibile con “nuovi e migliori posti di lavoro” e una
“maggiore coesione sociale”. Questo banale dato di cronaca facilmente
riscontrabile è la cornice entro la quale si colloca la presente riflessione su
due libri che parlano di scuola in due diversi paesi: il Regno di Spagna e il Regno
Unito. Questi primi anni del nuovo
millennio si aprono ad una molteplicità di inquietudini riconducibili alla perdita di
potere in campo economico, politico, e culturale degli Stati nazionali. Per superare questa particolare condizione
di decadenza gli Stati nazionali cercano di migliorare i loro margini di
competitività, e questo porta ad alleanze economiche, militari, politiche e al
tentativo di stabilire adeguati tassi di crescita.
La
presente competizione globale, che è anche conflitto fra poteri economici
globali, porta i singoli stati a ripensare e riformare anche il loro sistema
scolastico.
I libri
presi in esame sono diversi: quello di Gill Helsby è un saggio, mentre l’altro
di Olegario Sampedro è una raccolta di
interviste a personaggi qualificati a trattare di scuola e riforme.
In questo
presente ragionamento a proposito dei contenuti dei due testi vengono presi in
considerazione quelli che indagano il problema della trasformazione, sia essa in atto o solo possibile, della scuola
pubblica in una attività imprenditoriale o in un ambiente di compensazione di
problemi sociali.
La
prospettiva di subordinare al mondo degli affari l’istruzione pubblica chiama
in causa problemi come l’autonomia delle scuole, il rapporto fra scuola e
territorio, le disuguaglianze sociali che inciderebbero sulla scelta della
scuola da parte delle famiglie degli allievi, la gestione democratica e
partecipativa della scuola che non può ridursi a una questione gestionale e
organizzativa di natura autoritaria, la salvaguardia della dimensione educativa
specifica della scuola da eventuali stravolgimenti dovuti agli interessi commerciali
che devono estrarre profitti per gli azionisti.
Il primo
libro tratta della pubblica istruzione nel Regno unito con particolare
riferimento al Galles e all’Inghilterra in quanto Scozia e Irlanda del Nord
hanno una certa autonomia regionale in materia, il secondo riguarda il sistema
della pubblica istruzione nel regno di
Spagna.
Questi
due testi si cimentano con il difficile compito di spiegare i percorsi che
hanno portato questi paesi a confrontarsi con la necessità di mettere in
discussione i loro sistemi scolastici e porre in essere dei cambiamenti.
In
entrambi i casi le riforme vedono l’obbligo scolastico portato a 16 anni e un
tormentato interrogarsi sul senso della scuola alla luce delle nuove forme di
capitalismo e del dominio culturale delle dottrine neo-liberali.
Il libro
di Helsby descrive la formazione e la trasformazione della scuola inglese dal
secondo dopoguerra a oggi e si concentra
sulle trasformazioni avvenute tra la seconda metà degli anni ottanta e i primi
anni del nuovo millennio.
Questo
fa sì che il libro presenti una seria analisi dei rapporti di discontinuità
(pochi) e continuità (molti) tra governo conservatore tatcheriano e governo
neo-laburista Blairiano. In modi e tempi
diversi questi orientamenti politici hanno rafforzato quella visione ideologica
che chiede la mercificazione dell’istruzione e un modello aziendale di
gestione, il concepire la scuola come occasione di “Businness”.
L’autore
incrocia nel testo l’analisi storica e sociale con interviste ad insegnanti e
dirigenti scolastici dando così voce alle categorie che sono state le prime ad
esser coinvolte nei cambiamenti. Quindi
il livello alto della legislazione e delle posizioni ideologiche, ossia la
supremazia del mercato, è letto alla luce degli esiti e del lavoro quotidiano.
A
differenza dell’Europa continentale, dove lo Stato ha organizzato e uniformato
la scuola, lo sviluppo della scuola nel Regno Unito è stato largamente affidato
ai singoli enti e privati. Le riforme a
cavallo fra gli anni ottanta e i primi anni novanta hanno interrotto una
tradizione di decentralizzazione e pluralismo ed è stato introdotto un
curriculum nazionale e il controllo per via burocratica dei docenti.
La
riforma Tatcheriana si è qualificata per il controllo legato al finanziamento
statale, per l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino a 16 anni articolato in quattro cicli, per
l’introduzione di ispezioni, per l’amministrazione manageriale della scuola,
creazione di scuole secondarie, finanziate con fondi pubblici ma sponsorizzate
dalle locali associazioni d’impresa e gestite da consigli
d’amministrazione indipendenti ala
stregua delle scuole private.
Questa
“rivoluzione culturale” ha trovato non poche resistenze, perché le iniziative
del governo non godevano del consenso di tutte le parti coinvolte.
Gli
insegnanti inglesi preso atto del peggioramento delle condizioni salariali e di
lavoro attuarono uno sciopero bianco e una serie di astensioni dal lavoro in
varie aree del paese creando non pochi problemi ai dirigenti scolastici. Tuttavia gli esiti della lotta, questo
accadde nel 1985, non furono tali da impedire al governo di procedere con la
sua iniziativa politica.
Una
delle novità di questa riforma (Education Reform Act, 1988) è stata la
burocratizzazione dei meccanismi di resoconto finale, in netto contrasto con le
precedenti tradizioni di autonomia degli insegnanti e degli istituti. Questa novità è stata letta da molti
insegnanti come un processo professionalmente dequalificante. Questa percezione della perdita del senso e del
ruolo non è un portato solo della riforma, ma si sviluppa intorno agli anni
settanta. Essa venne alimentata anche
da incidenti e “scandali” che riguardavano casi nei quali l’autonomia e
competenza apparivano mal impiegati.
Occorre sottolineare che in tale contesto e con queste premesse le
logiche aziendalistiche sono state fatte proprie dai governi neo-laburisti e
che le ragioni profonde della crisi di credibilità della professione docente
sono rimaste inalterate.
Un
contributo alle politiche neo-liberali in materia è dato dal pregiudizio
diffuso che intende il lavoro dell’insegnante come un lavoro che può essere
fatto da chiunque perché non sono necessarie abilità particolari. Ovviamente i tempi per distruggere una
credibilità professionale sono brevi, al contrario essi sono lunghi quando si
tratta di costruirla. Il libro in
questione si ferma sulle soglie del nuovo millennio mostrando una continuità
sostanziale fra neo-laburisti e conservatori neo-liberali in materia di scuola.
L’altro
testo vuole essere un contributo al dibattito sulle riforme scolastiche del
Regno di Spagna. Uno degli intervistati
il professor Cesar Coll, docente di psicologia educativa all’Università di
Barcellona, afferma che la Spagna partiva dalla situazione opposta rispetto a
quella del Regno Unito. La
centralizzazione e l’ottusità del sistema scolastico erano il frutto di quel
regime franchista che fra l’altro durante la guerra civile fece ammazzare
centinaia di insegnanti elementari colpevoli di aver simpatizzato con la Seconda
Repubblica. Il problema spagnolo era
uguale e opposto: riformare la scuola e limitare un centralismo autoritario.
Ristabilite
condizioni accettabili di governo democratico e rispettoso dei diritti intorno agli anni ottanta la scuola venne
riformata una prima volta, nel 1990 la scuola venne riformata una seconda volta
con una legge di riordino, peraltro molto contestata nota per il suo acronimo
LOGSE. Questa legge venne ritenuta da
una parte dell’opinione pubblica troppo all’avanguardia e fra le altre cose
essa innalzò l’obbligo scolastico a 16 anni.
Questa legge fu riformata nel 2002 dal governo conservatore. Quindi anche in una realtà così differente
per situazioni e tempi alcuni problemi sollevati dal modello inglese si
ripresentarono e in particolare quello della mercificazione della cultura e
delle forme subdole o palesi di privatizzazione della scuola. A questo proposito Cesar Coll risponde ad una
domanda dell’intervistatore sulle prospettive della scuola privata affermando che
la scuola pubblica è in crisi e che il pericolo per la Spagna è di veder la
scuola pubblica relegata a svolgere funzioni assistenziali e sociali. La prospettiva, voluta o meno, è una
programmata discriminazione degli allievi su base censitaria. L’intervistato sottolinea come questo sia
dovuto anche alla populistica identificazione di tutto ciò che è negativo con
il pubblico e del positivo con ciò che è privato.
Del
resto secondo l’intervistato la competizione fra scuola pubblica e scuola
privata è falsata dalla differenza di mezzi, normative e dal fatto che la
scuola privata sceglie gli allievi; un problema che secondo il professore i governi progressisti d’Europa dovranno
affrontare con coraggio.
Il
problema delle condizioni sociali emerge anche nell’intervista di Andrès Torres
Queiruga, sacerdote e professore di filosofia della religione, il quale
sottolinea come le disuguaglianze sociali determinano le possibilità degli
studenti. Il cattedratico Josep
Bricall, docente di economia politica, riprende il tema allargandolo
all’università, la quale a suo avviso è mutata a seguito dei cambiamenti del
sistema produttivo dovuti all’introduzione di nuove tecnologie. Il suo parere è che i governi Europei non
hanno ancora deciso se adottare il modello anglo-americano o costruire un loro
modello. Alcune considerazioni di
Bricall meritano attenzione egli afferma che: l’università spagnola non prepara
come dovrebbe, e come auspica dovrà prima o poi fare, all’integrazione Europea
e che a suo avviso, e usa per dirlo un modo di dire dell’America Latina, le
Università dovrebbero armarsi contro la prospettiva di giungere a concepire la
scuola come un bene di mercato e gli studenti come semplici clienti.
La
tensione fra realtà economica discriminante e le istanze democratiche e di parità
fra i sessi è l centro dell’intervista dell’attivista politica di sinistra,
durame e dopo la dittatura, Cristina Almeida.
Essa
sottolinea come la scuola pubblica da un lato si fa carico di istanze sociali:
integrazione, immigrazione,emarginazione; e dall’altra parte si consolida la
scuola privata e convenzionata con fondi pubblici. La scuola pubblica come scuola è quindi per
l’intervistata in declino e per la scuola privata si apre la possibilità di
diventare scuola d’Elitè. Per Cristina Almeida la scuola non è un costo ma
un beneficio per la Nazione e la società nel complesso e quindi non si può
guardare ad essa con logiche liberiste.
Interessante
a questo proposito è l’affermazione del professore di teoria e storia
dell’educazione Herminio Barreiro che afferma:”…se un paese privatizza la scuola, significa che quello Stato può
permettersi il lusso di quella privatizzazione o comunque che ciò è
nell’interesse delle classi dominanti.
Tuttavia, chi, se non lo Stato può occuparsi di costruire un sistema
educativo razionali, popolare, laico e di massa? Senza dubbio solo ed esclusivamente lo
Stato.”
Nella
sua lettura l’intervistato osserva come la crisi della scuola sia il riflesso
dei cambiamenti sociali ed economici, la scuola dovrebbe avere un potere
critico che al momento in cui egli parla non ha, ma che potrebbe essere in
futuro recuperato.
I due
testi sottoposti alla presente lettura parallela mostrano come due paesi così
distanti si trovano ad affrontare lo spinoso problema della pubblica istruzione
intesa come occasione affaristica da parte di grandi soggetti internazionali.
Entrambi
i libri si chiudono alle soglie di quel 2002 che vide il governo conservatore
spagnolo e il governo laburista inglese applicarsi per riformare la pubblica
istruzione alla luce delle sollecitazioni del “mercato”, in particolare
l’”Education Act” inglese venne pensato e trasformato in legge per fornire un
quadro legislativo che incoraggiasse la creazione di un mercato dell’educazione
in cui scuole e imprese vendono beni e servizi. Attualmente questo indirizzo politico con il
nuovo governo Blair è stata confermato e i neo-laburisti attualmente operano
per realizzare una concezione di scuola interpretata come occasione per fare
impresa.
Al
contrario il nuovo governo Zapatero, sia pure entro i limiti di politiche
fortemente contestate dall’opposizione cattolica, cerca di operare una diversa
soluzione portando avanti con tormentata coerenza una politica di riforme che
intende riscrivere i programmi nazionali assieme alle singole regioni, ridiscutere
le modalità di finanziamento delle scuole private, ridisegnare l’equivalente
italiano della scuola media con il
quarto anno orientato al Liceo o alla formazione professionale.
La nuova
legge sulla scuola firmata da Josè Zapatero, il cui acronimo è LOE, sospende la
legge voluta dallo schieramento di Centro-destra del governo Aznar, segno che
una distinzione politica in materia di pubblica educazione è possibile.
I
percorsi politici in materia d’istruzione, dei due paesi potrebbero quindi differenziarsi, sia pure
entro una cornice sfavorevole per una serie di circostanze alla scuola
pubblica, presentando soluzioni diverse nell’affrontare un problema simile: la
riduzione del sapere e dell’insegnare a merce.
In
questa assimilazione della scuola entro confini ideologici del “primato del
mercato” su ogni altra realtà chi scrive
non trova alcuna morale ma solo i privatissimi interessi di pochissimi
miliardari e dei loro esperti.
Interessi che si formano e si realizzano con danni,
più o meno gravi a seconda delle situazioni, per la maggior parte delle
popolazioni che coinvolgono.
Iacopo Nappini
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