23 novembre 2011
Terzo libro delle tavole di Madduwatta: L'eredità di una Grande Guerra
Il comune buonsenso vede un mistero nelle origini del fascismo, in realtà se si colloca la questione della sua presa del potere fra il 1919 e il 1922 si capisce quanto in profondità la Grande Guerra avesse devastato la società italiana e dissolto molti legami civili e morali che la tenevano assieme. In generale mi sento di scrivere che la guerra tende a non esaurirsi con il fatto militare o con i trattati di pace ma al contrario essa influisce sul futuro di quanti vi hanno preso parte e se è totale ne rovescia la vita e dissolve il senso delle cose. La guerra distrugge e crea la realtà che dovrà esser chiamta a ricostruire, essa è un processo dinamico con aspetti fortemente creativi e tende a operare enormi distruzioni fisiche e materiali e anche psicologiche e culturali. Oggi le sedicenti democrazie vanno in guerra con popoli poveri e stranieri, la stessa democrazia dovrebbe istigare i reggitori del potere finanziario e politico a più miti consigli, linvece c'è una certa sottomissione nella pubblica opinione; l'esperto, il demagogo televisivo, il sofista corruttore della carta stampata lodano e giustificano i nuovi conflitti come se fossero partite di calcio fra "impiegati scapoli contro quelli ammogliati"o cose della pallavolo femminile. Manca ai media il senso della responsabilità e alle società private che aiutano i servizi segreti a far passare nella pubblica opinione una certa idea del nemico di turno il senso profondo di ciò che fanno e di quanta violenza irrazionale immettono nelle popolazioni che compongono le sedicenti odierne democrazie. Forse in fondo finanzieri, politici a pagamento, opinionisti, scellerati, sofisti televisivi, banchieri amorali e masse di elettori corruttibili e cattivi desiderano la fine delle libertà di tutti per mezzo di un grande disastro militare, non riescono a confessarlo neanche a loro stessi, ma di questo si tratta; è l'urlo che viene dal profondo della loro psiche. La guerra è una pericolosa avventura, l'inizio è certo, la fine mai. In troppi nel profondo desiderano la guerra totale, quella guerra definitiva che distrugge il loro mondo e queste "democrazie all'Occidentale" ormai composte da masse elettorali di umani scellerati, imbelli, dissoluti e corrotti e plagiati dalla pubblicità commerciale fin dall'infanzia.
L’eredità
della guerra a Firenze
Il linguaggio politico italiano dei primi anni del dopoguerra rimase pervaso
dall’odio e dalla violenza.
La propaganda
di guerra
aveva portato nel discorso pubblico e politico
le categorie di amico e di nemico, la criminalizzazione dell’avversario
politico e il disprezzo dei miti e
simboli altrui.
Nei primi anni del dopoguerra, le forze socialiste ed operaie in Italia costruirono
un loro universo simbolico derivato dalle sofferenze e dai lutti generati dal
conflitto mondiale. Era un universo
fondato su un antagonismo feroce nei confronti del tentativo della classe
dirigente della penisola di costruire un mito pubblico della guerra volto a
celebrare la Nazione e la “Nuova Italia” uscita vittoriosa dal conflitto. Le forze di sinistra indicarono senza appello
le responsabilità delle sofferenze e la borghesia era da loro additata alla
riprovazione universale per i lutti, le privazioni, e i disastri provocati con
la guerra. Il 5 dicembre 1918 le associazioni
e le forze politiche socialiste dirette al Parterre, nella piazza che era stata
teatro della manifestazione solenne del 1916 per il genetliaco del re, in
corteo per commemorare i “morti proletari in guerra” furono oggetto di una
pesante provocazione. “La Nazione” e “Il Nuovo Giornale” il 6 dicembre
scrissero di questo incidente nella cronaca, affermando che i manifestanti furono fermati
da gruppi organizzati di studenti, reduci e mutilati, i quali mentre parlava
l’On. Pescetti provocarono gravi incidenti facendo fallire la manifestazione. I
quotidiani sottolinearono che gli aggressori s’allontanarono cantando a tutto
fiato l’inno di Mameli, mentre i socialisti, quando si ricomposero, cantarono
l’inno dei Lavoratori. In questo episodio, come in molti altri, i canti
erano la rappresentazione sofferta e partecipata di un omaggio funebre di
parte. Il giorno precedente “La Difesa” aveva lanciato un appello rivolto a
“tutti i proletari” per mostrare ai patrioti fiorentini, definiti “quattro gatti”,
la forza e il seguito di cui godevano i veri eroi; ossia coloro che
“deprecarono la guerra e nella guerra perirono”. L’appello era rivolto a: “Quanti
hanno mente, cuore, fede socialista”, in modo che tutti potessero vedere la
lealtà e il coraggio dei militanti socialisti. Infatti la chiamata a raccolta
affermò senza mezze parole che: “Ogni diserzione è un’offesa alla memoria dei
“nostri” caduti ed all’idea nella quale tenacemente sperarono. Proletari in
piedi!”
Il 28 dicembre lo stesso periodico fece un’analisi dell’evento delineando
esattamente chi erano i manovratori politici e cosa volevano: “Ed ora che la
guerra è finita, la reazione continua. Si mantengono ancora in vita le
associazioni di resistenza attraverso le quali la reazione si compie. Ne avemmo
un esempio evidente colla provocazione di domenica scorsa, nella quale si
giunse all’assalto a mano armata quando sorse a parlare il vecchio deputato
Beppe Pescetti, quasi si volesse ripetere il gesto che tolse la vita a Giovanni
Jaures…”.
Questo
avveniva contemporaneamente alla richiesta da parte dei socialisti fiorentini delle
dimissioni della giunta Serragli,
colpevole di malversazioni nella gestione di
stoffe,
destinate ad essere poste in vendita per calmierare i prezzi nel contesto della politica
annonaria del Comune nell’ultimo anno di guerra.
Le commemorazioni
funebri, atto di pietà religiosa, divennero fin dal dicembre del 1918 terreno
di scontro politico, di dimostrazione di fede ideologica e di potere.
“La Difesa”, per sottolineare la propria identità politica opposta e diversa
rispetto a quella borghese, non
esitò nell’appello del 14
dicembre a scrivere a
proposito dei soldati caduti che si trattava di “nostri morti”.
Il blocco
politico
che aveva fatto sua la causa della guerra e l’aveva gestita era ben deciso a
continuare la sua lotta politica anche nel dopoguerra, mantenendo ben salde le
posizioni di potere che aveva raggiunto all’interno dell’amministrazione
comunale. La primavera-estate del 1919 Firenze vide la nascita di organismi e
associazioni come la Lega antibolscevica, l’Associazione agraria Toscana e lo
scatenamento di tumulti annonari
causati dal carovita. Nello stesso periodo cresceva la forza e il consenso per
il Partito Socialista che ottenne alle elezioni del 1919 un risultato storico a
Firenze, superiore alla media nazionale.
In
questo contesto
il 24 aprile 1919, in piazza Ottaviani, i primi aderenti al fascio fiorentino
aprirono la loro sede nello stesso edificio dell’Associazione Nazionale dei
Combattenti. I fascisti agirono in modo
da compensare lo scarso numero di aderenti con la violenza fisica e verbale
portando avanti “quella che qualcuno ha voluto chiamare, a Firenze, “guerra
incivile”, tanto fu lo scontro in mano ai facinorosi, ai violenti, a gente che
stimava che la forza dovesse sostituirsi allo scambio di idee, al confronto fra
le ragioni addotte tra le parti”.
Nel luglio del 1920, in periodo pre-elettorale per il rinnovo delle
cariche amministrative, “La Difesa” pubblicò un articolo di denuncia
in merito alle continue pesanti provocazioni delle camicie nere, affermando che
era tempo di rispondere con la forza. La
violenza esplose il 29 agosto 1920. Nel corso di una manifestazione di protesta
che sfilava per il centro di Firenze si verificarono alcuni incidenti, nei
quali restarono uccisi un commissario di polizia e due manifestanti. Le esequie del commissario furono celebrate
in forma solenne con la partecipazione delle autorità.
Anche le altre
due vittime furono accompagnate nel loro ultimo viaggio terreno con una
cerimonia civile alla quale partecipò una folla di migliaia di persone,
decisa ad esprimere netta ostilità contro le autorità politicamente schierate.
Gli onori funebri si erano trasformati in un rito pubblico nel quale le forze
contrapposte palesavano la consistenza delle adesioni alla loro causa.
Le elezioni amministrative del novembre del 1920 si svolsero in un clima
rovente, con i socialisti accusati esplicitamente di essere traditori della
patria; la consultazione elettorale fu favorevole al blocco “anti–socialista” e
l’esito avrebbe portato alla formazione della giunta Garbasso. Il 7 novembre del 1920 un corteo socialista,
che manifestava a seguito della diffusione delle notizie sul risultato
elettorale in città, fu fatto oggetto di colpi di rivoltella sparati dai
fascisti e subito dopo disperso
dalla forza pubblica.
Sparatorie avvennero in altri luoghi della città, fu anche lanciata una
bomba in via Roma. Le responsabilità dell’attentato furono subito attribuite ad
un socialista e ad un delinquente comune suo presunto complice. Il fine di
quelle provocazioni era di creare una situazione torbida e confusa in modo da
accusare i socialisti di sovversione e, come era già accaduto durante la
guerra, di tradimento. “Il Nuovo Giornale” lanciò la notizia che i socialisti
si erano organizzati in gruppi armati di rivoltella che minacciavano gli
avversari. Fu facile, per le componenti
politiche del blocco, accusare i socialisti di aver ucciso due persone vicine
al loro schieramento; furono organizzati
funerali solenni per queste “vittime del terrore rosso” che ricordavano
l’omaggio funebre che veniva tributato agli eroi di guerra.
L’11 novembre 1920, in concomitanza con i festeggiamenti del genetliaco
reale, sfilò il corteo funebre. Durante il percorso vi fu una provocazione e
scoppiò un tafferuglio, forse provocato dai fascisti; i quali per ottenere
maggiore visibilità sfilarono anche dopo il corteo,
nonostante i divieti delle forze dell’ordine, percorrendo di nuovo le vie
cittadine.
Lo scopo di tale prova di forza era certamente dovuto al loro desiderio
di mostrarsi come l’unica forza politica in grado d’imporre ordine e sicurezza
nella città. Il 27 febbraio 1921 la
bomba di un’ignota mano terroristica esplose in mezzo a un gruppo di studenti
liberali che formavano un corteo patriottico diretto in piazza dell’Unità
d’Italia per onorare i caduti deponendo una corona d’alloro sull’obelisco.
L’esplosione ferì a morte lo studente Carlo Menabuoni che morì dopo
giorni d’agonia. La vittima successivamente fu oggetto di una mitizzazione tesa
a mostrare il defunto quale esempio di caduto fascista ed ex combattente eroico
ucciso a tradimento mentre partecipava ad una manifestazione patriottica in
memoria dei caduti. Per la verità il Menabuoni era affiliato ai giovani
liberali e nel corso del conflitto mondiale cadde prigioniero, forse aveva
delle simpatie per il fascismo, tuttavia la sua trasformazione in martire della
causa fascista è stata una evidente strumentalizzazione.
Si scatenò la
caccia all’uomo e i fascisti, organizzati in cinque bande armate, percorsero la
città. Una di queste prese di sorpresa il sindacalista Spartaco Lavagnini
sul lavoro e lo uccise.
Il
sindacalista era molto conosciuto e uccidendolo intesero eliminare un punto di
riferimento ed un simbolo delle lotte operaie fatte a Firenze durante la guerra.
Questa
violenza scatenò una guerriglia urbana
che colse gli stessi fascisti impreparati. Il 27 sera, a seguito della morte di
Lavagnini, i ferrovieri proclamarono uno sciopero per il giorno dopo, i
tranvieri aderirono all’agitazione perché alcuni colleghi erano stati picchiati
dai fascisti. Il 28
febbraio verso le 9 avvengono i primi scontri fra fascisti e scioperanti a
Porta a Prato. La spedizione fascista contro il rione sovversivo di San
Frediano partì in tarda mattinata e, inaspettatamente, le squadre non
riuscirono ad entrare nel quartiere. Furono fermate e costrette a difendersi
dalla reazione popolare presso via dei Serragli e Piazza Tasso. Una spedizione
che doveva raggiungere Sesto Fiorentino fu bloccata da una folla inferocita presso
Castello, un rione fiorentino al confine fra i due comuni, ed i fascisti per evitare
il linciaggio si barricarono nella villa del Tenore Caruso. Contro i fascisti e
la polizia vennero erette, nelle strade di Firenze, delle barricate, presidiate
anche con le armi. Nel primo pomeriggio interi quartieri popolari erano fuori
controllo e a quel punto l’esercito attaccò con il 69° e l’84° fanteria, forti
di autoblindo, artiglieria e mitragliatrici. La difesa era incentrata sulle
barricate e su ostacoli difesi da qualche arma da fuoco e dal lancio di oggetti,
si registrò perfino il lancio di un acquaio di graniglia su un autoblindo.
L’attacco
militare nei quartieri d’Oltrarno eliminò le barricate con l’uso delle
autoblindo e in qualche caso dell’artiglieria. Nel tardo pomeriggio l’esercito
ebbe ragione dei difensori e passò agli arresti dei sospetti. In questa
situazione di guerriglia urbana avvenne l’uccisione di Giovanni Berta che
diverrà il “caduto fascista” fiorentino più noto e di conseguenza il più
esaltato dal regime che gli dedicò
addirittura una città nelle colonie e lo stadio di Firenze. Si trattò, con ogni
probabilità, di un pestaggio mortale attuato da più persone, forse di un
delitto di folla. Il Berta transitava in
bicicletta sul Ponte Sospeso, nei pressi dell’attuale Ponte alla Vittoria
quando venne fermato, picchiato e scaraventato in Arno. Giovanni Berta era
figlio di un famoso industriale fiorentino ed ex marinaio che, nel corso del
conflitto, aveva fatto naufragio per causa belliche e si era salvato a nuoto.
Sapeva quindi nuotare, la sua morte è quindi da imputare al pestaggio subito.
La sera fu
ucciso presso Varlungo dai difensori di una barricata il brigadiere dei
carabinieri Loy che, convinto che lo scontro armato fosse cessato, si era
avvicinato inconsapevolmente al blocco stradale. Il giorno successivo il 1
marzo fu eretta una barricata dalle parti di via Erbosa, in piazza del Bandino,
che bloccava l’accesso a cinque strade. Un maresciallo dei carabinieri con
quindici attaccanti cercò di sgombrare
la barricata, fu ucciso dal lancio di alcune bombe a mano. La barricata
fu eliminata dall’intervento dell’esercito che arrivò sul posto con una sola autoblindo
e due cannoni. I Bersaglieri intervennero in Santa Croce, a Ponte a Ema ed a Scandicci fu usata
l’artiglieria e le mitragliatrici per rimuovere le “forze ostili”.
“La Nazione” uscì il 2 marzo con un titolo in prima pagina che sembrava
riprendere le edizioni edite durante il conflitto: “Le strade di Firenze insanguinate dalla guerriglia civile. Un tragico
bilancio: 15 morti e 100 feriti.” I titoli interni furono scritti come se
il quotidiano stesse riportando la cronaca di una battaglia: “moto
insurrezionale nel quartiere di San Frediano. Le mitragliatrici in azione –
Numerose vittime – Feroce vendetta contro un “fascista” altri dolorosi
conflitti-arresti e alcune perquisizioni”.
In terza pagina i titoli non erano meno forti e mostrano l’eccezionale
portata di quella violenza e la continuità fra il linguaggio della propaganda
politica e quello della propaganda di guerra: “Rivolta nel quartiere di Santa
Croce. L’uccisione di un maresciallo dei carabinieri al Bandino – Lancio di
bombe – Tentativo d’assalto ad una caserma – L’artiglieria in azione – altri
morti ed altri feriti – L’ultimatum dei fascisti al comitato comunista – la
cessazione dello sciopero”.
Il giorno
successivo, il 3 marzo, fu pubblicata la cronaca dei fatti di Scandicci, con
questo titolo: “Il moto insurrezionale di Scandicci domato dall’artiglieria”.
Questo titolo per quanto enfatico era veritiero: vennero sparati circa tremila
colpi di mitragliatrice e qualche tiro di una batteria di pezzi da 75 per arrivare
alla conquista del Comune.
Il giorno antecedente “Il Nuovo Giornale” uscì
in edicola con un editoriale
che
addossava
tutta la responsabilità delle violenze ai socialisti ed agli operai.
I due quotidiani
conservatori rivelano che il linguaggio di guerra era il naturale mezzo per
descrivere la situazione, in un certo
senso la guerra si era proiettata oltre la fine del conflitto.
La lotta per il controllo di
Firenze arrivò, ad una svolta attraverso un’azione principalmente militare, e
solo in parte squadristica, rivolta contro la popolazione di alcuni quartieri.
A causa di queste violenze ritornò con nuova forza in città quel linguaggio
politico e giornalistico derivato direttamente dalla propaganda bellica che
demonizzava l’avversario, incitava all’odio, esaltava e presentava come eroi i
morti della propria parte, i quali divenivano le prove più evidenti e più sacre
della santità della causa che veniva attribuita al loro sacrificio supremo. I
fatti di Firenze furono riportati con molta enfasi dalla stampa nazionale; a
questo proposito “L’Avanti” affermò che ormai “La stampa dipende dai
pescecani”
e di conseguenza s’era schierata dalla parte dei fascisti.
L’analisi dei fatti accaduti fu fatta dal quotidiano
il 5 marzo 1921 e fu molto semplice: “…si vede come la condotta dei fasci non
sia la ritorsione contro gli atteggiamenti delle organizzazioni operaie, ma
invece dipenda da tutto un preordinato piano d’azione col quale si mira a
distruggere quei fortilizi di resistenza che la classe operaia si è creata
attraverso tanti anni di sacrifici e lotte.” Il quotidiano sottolineava che
quest’impresa organizzata militarmente aveva causato 16 morti, 200 feriti e 500
arresti Il marzo del 1921 si caratterizzò per il clima di tensione diffuso che
sfociò in pestaggi e anche uccisioni in tutta la Toscana; violenze
particolarmente gravi accaddero a Empoli e a Foiano della Chiana.
Con l’acquisizione del linguaggio di guerra da parte delle forze
politiche anche le onoranze funebri ai caduti per la causa divennero oggetto di
costruzione di identità e di scontro.
In questo contesto l’8 agosto 1921, si verificarono degli incidenti nella
strada che porta al cimitero di Trespiano. Una delegazione degli Arditi del
popolo, mentre si recava ad onorare i caduti in guerra, si scontrò con una
delegazione dell’Associazione Nazionale Mutilati di Guerra, in modo tale da
provocare la reazione delle guardie regie che intervennero disperdendo il
corteo. Il 7 dicembre del 1921 fu invece
il funerale di un operaio, un lutto privato e non pubblico, l’occasione per
altri pestaggi fascisti contro quelli che avevano espresso una solidarietà di
classe
verso il defunto.
I riti funebri rappresentarono uno strumento di manifestazione della
propria identità e presenza politica durante quegli anni. Questo fatto si era
reso possibile perché la Grande Guerra aveva creato le condizioni perché il
culto verso i morti fosse, sia nel discorso pubblico sia a livello culturale,
un confronto con la propria memoria, la propria identità politica e quindi con
l’immagine di sé. I morti per la causa erano i testimoni di una passione e di
un comune partecipare ad una ideologia. Il fascismo a livello nazionale cercò
di trasformare gli squadristi uccisi e i simpatizzanti ammazzati, veri o
presunti tali, in eroici caduti; in un certo senso in nuovi martiri di
carattere politico.
L’obiettivo dei fascisti era creare anche a Firenze il culto dei caduti
fascisti e per costruire questo nascente mito, che nelle loro intenzioni doveva
avere un rilievo nazionale, scelsero il cimitero delle Porte Sante, ossia il
cimitero monumentale di San Miniato. La loro prova di forza in materia di uso
strumentale dei riti funebri la tennero solo nel 1924 quando, premuti da
un’opinione pubblica ostile a causa dell’efferato delitto Matteotti, decisero
di andare sino in fondo, imponendo la loro mitologia funebre a tutta la
cittadinanza.
Il 23 ottobre 1924, Padre Ermenegildo Pistelli
trasformò il pietoso rito di inaugurazione di un monumento in memoria di tre
maestri caduti in guerra in una cerimonia fascista, alla quale parteciparono
insegnanti e gli alunni delle elementari.
I bambini sfilarono davanti al ricordo modellato come un’ara romana e salutarono
romanamente.
Il 24 ottobre
furono tre avanguardisti, morti in una spedizione armata contro gli oppositori
avvenuta a Sarzana nel 1921, ad essere tumulati con un rito che intendeva
riaffermare il primato del fascismo su tutti i partiti,
mentre il 28 ottobre per la ricorrenza della marcia su Roma esercito e camicie
nere assieme inaugurarono un monumento,
peraltro piuttosto brutto, ad uno squadrista ucciso nel luglio del 1921. Il 2 novembre un gruppo di cittadini
evidentemente arrabbiati appesero in una cappella privata un ritratto funebre
di Giacomo Matteotti; ne seguì una colluttazione con i fascisti, intervennero i
carabinieri
per sedarla. L’elemento del ricordo dell’eroe caduto si era così
trasferito dal contesto della propaganda di guerra in quello della vita
politica, anzi nel caso di Matteotti si può dire che la condanna dell’omicidio
politico e la conseguente identità politica antifascista passasse per
l’esibizione del suo ritratto funebre.
Il ricordo dei morti era ben presente nel discorso politico del primo
dopoguerra, questo fatto era concomitante con il problema dei ritorno delle
salme dei caduti dai cimiteri di guerra e delle loro onoranze funebri, una questione questa rimasta irrisolta subito dopo la fine della guerra.
L’esperienza di guerra e la propaganda
avevano creato un linguaggio fondato sulla coppia di opposti Nemico/Amico.
“…Possiamo definire dicotomizzare un permanente abito mentale dell’età moderna
che sembrerebbe possibile fra risalire alla realtà della Grande Guerra. “Noi”
siamo tutti da questa parte, il nemico sta dall’altra. ”Noi” siamo individui
con nome e identità personali; “esso” è soltanto un’entità collettiva. Noi
siamo visibili, esso è invisibile. Noi siamo normali; esso è grottesco. Le cose
che ci appartengono sono naturali; le sue strane. Il nemico non è buono come lo
siamo noi”. Paul Fussell, La Grande
Guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna, 2000, p.97.
La Difesa”, 19 dicembre 1918; anche “La
Nazione” del 14 dicembre diede notizia della manifestazione. Tra i “quattro gatti” che provocarono gli
incidenti c’era l’artista e ex ardito Ottone Rosai ; su questo cfr. Roberto
Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino,1919-1925, cit., p.53. In generale sulla storia del canto politico
in Italia dalle origini fino ai nostri giorni cfr. Stefano Pivato, Bella Ciao, canto e politica nella storia
d’Italia, Laterza, Bari, 2005
“Cfr. “La Difesa”, 19 dicembre 1918
Cfr. “La Difesa”, 28 dicembre 1918
Lo scandalo aveva per oggetto il costo
spropositato di una partita di pessime stoffe acquistata dal Comune nel
contesto delle iniziative prese per sostenere lo sforzo bellico. Il fatto
provocò le dimissioni del sindaco e la caduta della giunta. Cfr. Giorgio Spini, Antonio Casali, Firenze, Laterza, Bari, 1986, p.111. e
Roberto Bianchi, Bocci-Bocci, i tumulti
annonari nella Toscana del 1919, Olschki Editore, Firenze, 2001, p.75 e
p.112.
Tra la fine del 1918 e per tutto il 1919
“La Difesa” fu energica nel rivendicare l’impegno e la lotta sostenuta dagli
operai e dagli umili durante la Grande Guerra, arrivando infine nell’aprile del 1919 ad affermare che il
patriottismo borghese che stava organizzando i suoi riti pubblici era una
reazione alle manifestazioni e alla presenza socialista. Cfr. “La Difesa”, 19 aprile 1919.
Sul determinante sostegno del quotidiano
“La Nazione” ai gruppi politici che facevano propria la lotta antisocialista: cfr. Indro Montanelli, Giovanni
Spadolini e aa.vv., La Nazione nei suoi
cento anni, Tipografia del Resto del Carlino, Bologna, 1915, pp. 114 – 115.
“Alle elezioni del 1919 il successo socialista
è considerevole: 8 deputati (contro 3 popolari, 2 liberali e 1 democratico) e
92.000 voti (contro 33.000 ai “Costituzionali” e 40.000 ai cattolici del
partito popolare). E questo successo è superiore alla media nazionale. Ma la
sua stessa portata preoccupa la destra nazionalista, la classe media (commercianti
e piccoli artigiani) ed i cattolici, che l’anticlericalismo dei “massimalisti”
spaventa”. Pierre Antonetti. Storia di
Firenze, Edizioni scientifiche Italiane, Napoli, 1993. Sul contesto nel
quale si costituì il fascismo fiorentino Cfr. Giorgio Spini, Antonio Casali, Firenze, cit., p.113.e Roberto
Cantagalli, Storia del fascismo
fiorentino, 1919 - 1925, cit., p. 51 - 68. Cfr. Roberto Bianchi, Bocci-Bocci, i tumulti annonari nella
Toscana del 1919, cit.
Cfr. Marcello Vannucci, Storia di Firenze, Newton Compton, Roma,
1986, p. 402.
Roberto Cantagalli nel suo saggio scrive
che ai funerali di coloro che erano morti durante la manifestazione
parteciparono circa 50.000 persone. Lo
scrittore Vannucci racconta che si
trattò di una folla con di poche migliaia di partecipanti. Cfr. Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino, 1919 - 1925, cit, pp.114
- 115. Marcello Vannucci, Storia di Firenze, Newton Compton, Roma, 2000, p. 495.
Cfr. “Il Nuovo Giornale” e “La Nazione”, 8 novembre 1920.
Cfr. “Il Nuovo Giornale”, 12 novembre 1920; sulle violenze
avvenute nel 1920 a Firenze. Cfr. Alberto Marcolin, Firenze in camicia nera, Medicea, Firenze, 1993, p. 23.
Spartaco Lavagnini, Arezzo 1886 – Firenze
1921. Diplomato ragioniere fu uno dei sindacalisti impegnati durante gli anni
della guerra a difendere i diritti degli operai. Al momento della morte era
un impiegato delle Ferrovie e segretario
del Sindacato dei Ferrovieri della sezione di Firenze. Ricoprì anche il ruolo
di direttore del giornale “La Difesa”. Cfr.
Roberto Cantagalli, Storia del fascismo
fiorentino, 1919 - 1925, cit., pp.147 - 173. Alberto Marcolin, Firenze in camicia nera, Medicea,
Firenze, 1993, pag. 24 – 29.
Per quel che riguardala ricostruzione dei
fatti di quei giorni sono stati presi come testi di riferimento: Alberto
Marcolin, Firenze in camicia nera,
Medicea, Firenze, 1993, Giorgio Spini,
Antonio Casali, Firenze, Laterza,
Bari, 1986. Roberto Cantagalli, Storia
del fascismo fiorentino, 1919 – 1925, cit.
“Il
Nuovo Giornale” uscì nelle edicole il
2 marzo, trascorsi i due giorni decisivi di violenze, intitolando la prima
pagina: “Tre giornate di sangue, d’orrore, d’incendi a Firenze”. L’editoriale
del direttore Banti affermava che un gruppo di “parricidi perché assassini
della patria” pagati dagli stranieri avevano scatenato la sommossa. La cronaca de “La Nazione” del 3 marzo
descriveva il ritorno da Scandicci, che avevano preso a colpi di cannone e di
mitragliatrice, del corteo dei camions con i soldati vincitori, i quali
sfilarono per Porta San Frediano ed i Lungarni esponendo sopra un camion un
ritratto di Lenin preda bellica, come se l’azione fosse stata un fatto di
guerra. Dopo di loro sfilarono per le strade anche i fascisti. I giornali fiorentini enfatizzarono le
violenze di quei giorni e i loro articoli influirono su come i fatti furono
successivamente ricordati. Cfr. Alberto Marcolin, Firenze in camicia nera, Medicea, Firenze, 1993, pag. 24 -25.
“L’Avanti”, il 1 marzo 1921, pur non
avendo ancora tutti i dati per comprendere le proporzioni dei fatti, pubblicò
un articolo di denuncia sulle violenze avvenute a Firenze ed indicò nei
giornali borghesi i complici degli assassini.
Fu anche pubblicato il necrologio funebre di Spartaco Lavagnini, che
ricordava per toni e termini quello dei caduti durante la Grande Guerra. Subito dopo i fatti violenti, una volta
riportato l’ordine con la forza in città, dalle officine di proprietà della
famiglia Berta furono licenziati tutti gli operai; la stessa cosa accadde alle
Officine Galileo.
“La
Nazione”, 9 agosto 1921. Il pestaggio che seguì i funerali dell’operaio ucciso
è riportato nella cronaca de “Il Nuovo Giornale” dell’8 dicembre 1921.
Cfr. “La Nazione” e “Il Nuovo Giornale”,
24 ottobre 1924.
Cfr. “La Nazione”, 24 e 25 ottobre 1924
Cfr. “La Nazione”, 29 ottobre 1924; “Il
Nuovo Giornale”, 28 e 29 ottobre 1924
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